Da adolescente talvolta mi capitava che, in occasione della stagione della vendemmia, mi proponessero qualche giornata di lavoro come bracciante. Io accettavo sempre volentieri, sia perché le esigenze familiari mi imponevano di non scartare alcuna forma di remunerazione, sia perché la raccolta dell’uva era sempre occasione per battute vivaci tra gli adulti che condividevano racconti goliardici che, in mezzo a quei doveri, mi alleggerivano il carico di fatiche.

Di tutte le volte in cui lavorai in vigna ne ricordo una in particolare.

Era la metà di un mese di settembre particolarmente caldo, con momenti di torrido scirocco alternati a nottate in cui la temperatura precipitava.

Quella volta salimmo sul carro in dieci e andammo presso il vigneto di Mèrulas, distante pochi chilometri dal paese ma già abbarbicato in collina verso il santuario della Madonna di Giovare.

Giunti a destinazione fummo accompagnati presso la casa di campagna del proprietario, al cui interno erano presenti diversi familiari, alcuni con visi a me noti altri sconosciuti; tra questi c’erano alcuni parenti romani, se ricordo bene provenienti da Santa Marinella. Mi colpì in particolare una giovane ragazza che avrà avuto all’incirca quattordici anni. La ricordo esile, con un cespo di capelli lunghi ondulati e gli occhi chiari perlopiù rivolti quasi sempre timidamente verso il basso. I genitori e i parenti più stretti riservavano per lei più cure e attenzioni che per gli altri bambini, mossi da una certa apprensione che poi, come appresi di lì a poco, era dovuta al suo stato di salute.

La ragazzina infatti non parlava.

Si diceva che fosse diventata muta a seguito di un non ben precisato evento morboso che l’aveva particolarmente provata fisicamente. Questo mi bastò per farla avvolgere, nei miei pensieri di sedicenne, da un’aura di mistero e delicatezza.

Durante la mattinata, mentre lavoravo, non persi occasione per cercarla di nascosto con lo sguardo, anche in lontananza, finché mi accorsi che ogni tanto anche a lei sfuggivano fugaci occhiate e, se colta in flagrante, arrossiva visibilmente.

Quando venne il momento di raccogliere l’uva, il padrone ci divise in coppie affinché potessimo recidere i grappoli sia da una parte che dall’altra del filare, e ad ognuna diede in dotazione un grande cestino.

La sorte volle che a me toccasse condividere il cesto proprio con lei.

Durante la raccolta la sorpresi spesso a guardarmi tra le foglie. Crebbe anche in me la curiosità e l’interesse e iniziai a cercare i suoi occhi intercettandoli tra i filari. Lei sorrideva e diventava paonazza e impacciata mentre cercava di tagliare i grappoli, stando sempre a pochi centimetri da me, per poi ritrarsi nuovamente, sempre schiva; ma poi ancora temporeggiava davanti ad un tralcio, attardandosi nella ripulitura degli acini danneggiati pur di consentirmi di raggiungerla.

Io la seguivo con la coda dell’occhio, deliziato da questo nostro gioco innocente, sempre preso dalla dolce ebrezza che solo i primi piccoli duelli amorosi sanno portare.

Decisi che avrei dovuto prendere coraggio e tentare di baciarla; del resto, ci eravamo parlati con gli occhi per tutta la mattinata, i genitori erano distanti, il fogliame delle viti ci avrebbe consentito discrezione.

Eccola, la intravedevo dalla parte opposta alla mia, sempre più vicina e, in un punto un po’ più rado di foglie, ecco sbucare il suo polso bianco che afferrai, per poi risalire alla ricerca della sua mano.

Peccato che lei, forse spaventata dalla mia inaspettata intraprendenza, invece di accompagnare il mio gesto emise un urlo!

Tutti, compresi i genitori, accorsero chiedendomi cosa fosse mai successo, che cosa le avessi mai fatto!

Mi dovetti scusare raccontando semplicemente ciò che era accaduto. Non vi dico la vergogna che provai!

Dopo i primi momenti confusi, dopo l’indagine istruttoria sul mio operato e appurato che di semplice maldestro corteggiamento si trattò, il clima della compagnia tornò disteso. I miei compagni in seguito mi derisero a lungo per questo accadimento, coniando diverse battute che accompagnarono alcune giornate di scherno.

Per quanto riguarda la ragazzina, da quel giorno ricominciò tranquillamente a parlare.

“NON SEMPRE PER UN MIRACOLO È NECESSARIA L’ESISTENZA DI UN SANTO”