Maria Josè Garcìa Soler è docente di Filologia Greca all’università dei Paesi Baschi. È autrice del libro L’arte di mangiare nell’antica GreciaIn questa conversazione con Paesìa ci ricorda che all’interno della letteratura greca esiste anche una letteratura gastronomica e ci descrive il rapporto che gli antichi greci avevano con il cibo e con il vino.

(Simposio)

Com’è nata la sua passione per lo studio della Grecia antica?

Come tanti giovani adolescenti, avevo tanta curiosità per i racconti della mitologia e li trovavo molto interessanti. Poi ho iniziato gli studi di latino e mi è piaciuto tantissimo; è stato una vera scoperta. Successivamente ho cominciato a studiare il greco e devo dire che mi ha conquistata. Infine, mi sono iscritta all’Università e sono stata decisamente fortunata: aver scelto un nuovo ateneo ha reso possibile il fatto che, solo dopo nove mesi dal conseguimento della laurea, l’Università dei Paesi Baschi mi ha proposto il mio primo contratto di lavoro.
 

Nel suo libro L’arte di mangiare nell’antica Grecia ci ricorda che all’interno della letteratura greca esiste una letteratura gastronomica. Un lavoro caratterizzato da una ricerca complessa e coinvolgente al tempo stesso. È così?

Il libro è il risultato della mia tesi di dottorato, ovviamente rielaborata; perché un libro ha un diverso profilo di comunicazione. È stato un lavoro davvero piacevole, anche se ha richiesto tanto impegno.

Adesso c’è tanta ricerca, peraltro molto seria, sulla storia della gastronomia, soprattutto quella dell’antichità. Ma io ho cominciato i miei studi alla fine degli anni ’80 e a quei tempi non c’era la stessa attenzione su questo tema; anzi, sembrava un soggetto molto poco serio. Ciò nonostante, sono stata fortunata perché il mio relatore accolse con disponibilità (e forse anche con un po’ di curiosità) la mia proposta di scrivere una tesi di ricerca sulla cucina greca antica. E pensai che, se proprio dovevo lavorare su un argomento per tanti anni, era indicato che scegliessi un ambito che mi piacesse e mi consentisse di divertirmi.

Ci parla di Dioniso? Si può definire un dio dalla natura multiforme?

Bisogna partire col pensare a Dioniso come a un dio della fertilità della vegetazione e, più in generale, della forza della natura. Quest’ultima per Dioniso viene rappresentata dall’uva e dal vino.

Dioniso ha una doppia natura perché è un dio anche nel mito. Incarna la simpatia e l’allegria, due caratteristiche che si realizzano quando si comincia a bere un po’ di vino: la prima quantità ti fa diventare più aperto, ricettivo e disponibile; ma quando si continua a bere può prendere corpo l’altro verso, quello negativo, che fa venire fuori quello che hai dentro, che non sempre corrisponde alla parte migliore di sé.

Per i greci antichi il vino rappresentava un modo per essere posseduti dal dio. Infatti, il termine “entusiasmo” significa essere in una condizione di possessione e che il dio è dentro di noi. L’effetto che ne può derivare è l’ispirazione poetica. Non a caso Dioniso è anche il dio del teatro. Ma può accadere anche che la possessione sortisca una spinta verso la follia e gli eccessi.
 

Qual era il ruolo sociale del cibo nell’antica Grecia?

Penso che alla fine continuiamo ad essere romani e anche un po’ greci, comunque mediterranei. Ritengo che ci sia un rapporto con il passato che è proseguito fino ad oggi.

Per sintetizzare il concetto si può dire che c’era la parte legata alla sussistenza: se volevi vivere, l’unico modo era mangiare. Poi, c’era l’elemento della condivisione con la comunità: il cibo era un fattore che determinava la coesione del gruppo. C’erano anche i riti sacrificali, nei quali una parte dell’animale veniva bruciata in onore degli dei e un’altra parte veniva mangiata dalla comunità.

Infine, c’erano i banchetti, nei quali un gruppo di persone condivideva cibo e vino. Infatti, il simposio greco rappresentava un’occasione speciale, quasi aristocratica, nella quale un gruppo omogeneo di uomini partecipava condividendo cibo, vino, canti, giochi, poesie; c’era poi la conversazione, talvolta riservata anche alla politica.
 

Gli antichi greci riconoscevano nel cibo un elemento di salvaguardia della salute?

Assolutamente sì. Infatti, una delle prime linee della medicina era la dietetica, una delle discipline che aveva come obiettivo la conservazione o la riconquista di un buono stato di salute attraverso un corretto e mirato approccio al cibo.

Ci sono gli scritti di Ippocrate, nei quali vi sono indicazioni su quello che si deve mangiare e su come lo si deve mangiare.

C’era anche un trattato di Galeno dedicato alla qualità degli alimenti. Al suo interno si può trovare un passaggio nel quale si dice che il medico deve essere anche un po’ cuoco, perché deve conoscere non solo le caratteristiche intrinseche degli alimenti ma anche come cambiano le proprietà del cibo in funzione del modo in cui viene trasformato e cucinato.
 

Quale spazio veniva dato alla creatività nella cucina dell’antica Grecia?

In epoca ellenistica si dava più importanza all’abilità tecnica. Non ci sono, invece, molte testimonianze legate alla creatività. Però, mi viene in mente che, secondo Ateneo di Naucrati, i sibariti davano un premio ad ogni cuoco che inventava un nuovo piatto speciale; il cuoco aveva il diritto di preparare quel piatto in esclusività per un anno. Dopo questo periodo anche altri cuochi potevano preparare quel piatto; insomma, venivano a decadere i “diritti d’autore”. Di certo, in quell’epoca i cuochi erano molto apprezzati, soprattutto quelli siciliani e quelli provenienti dalla Magna Grecia. Questo perché c’era l’idea che la Magna Grecia fosse una sorta di paradiso in Terra dove si mangiava benissimo.
 

Quali erano gli alimenti più apprezzati?

Il primo punto da precisare prima di parlare dell’antica Grecia in generale è che, in realtà, i testi da cui ricaviamo queste informazioni fanno riferimento soprattutto ad Atene, anche se molto probabilmente in altri posti la situazione potrebbe non essere stata molto diversa.

L’alimento che più veniva apprezzato era certamente il pesce; era il sogno di tutti i gastronomi. Nella parte alta della classifica di gradimento c’erano l’anguilla (la regina dei pesci), il tonno, alcuni tipi di squali, le sardine, il grongo e anche una varietà notevole di molluschi e crostacei.

Ma, soprattutto, gli antichi greci mangiavano molte verdure; tutto quello che ottenevano dalla coltivazione dei campi andava a costituire la parte prevalente della loro dieta. Non mancavano i legumi e i cereali.

Si mangiava anche tantissima frutta, soprattutto fichi.

Si consumavano anche tanti formaggi, che rappresentavano un’opzione per conservare, trasformandolo, il latte degli animali.

Per quello che riguarda la carne, si mangiavano soprattutto polli, maiali e selvaggina. In realtà, però, ritengo che la maggior parte della popolazione consumasse carne quasi esclusivamente in occasione dei sacrifici.

Sento di poter affermare che l’alimentazione degli antichi greci fosse molto simile a quella che c’era da noi in Spagna e in Italia fino a 50-70 anni fa, escludendo ovviamente alimenti come i pomodori, i peperoni e altri cibi ormai molto comuni, arrivati in Europa secoli dopo.
 

E le spezie e i dolcificanti maggiormente utilizzate?

Origano, prezzemolo, rosmarino e una grandissima varietà di erbe e spezie come il pepe. Poi lo zafferano, che però veniva usato per lo più come colorante per i tessuti e per aromatizzare bevande, tra le quali anche il vino.

Come dolcificanti venivano utilizzati soprattutto miele e mosto cotto.
 

Nel suo lavoro di ricerca accademica lei ha riservato uno spazio importante anche al vino. Dal punto di vista organolettico com’era il vino bevuto nell’antica Grecia?

Anche gli antichi greci avevano il vino quotidiano e i vini di qualità. I grandi vini si ottenevano da vendemmie tardive. Si torceva il peduncolo dei grappoli per arrestare il passaggio della linfa e gli acini appassivano grazie all’azione del sole. Poi si faceva un mosto denso e si lasciava invecchiare il vino per molti anni. Veniva bevuto mescolandolo con acqua.

Quando, durante l’invecchiamento, si verificavano problemi che dovevano essere corretti o mascherati, oppure per aromatizzare la bevanda, c’era la consuetudine, meno diffusa rispetto a quanto facevano i romani, di aggiungere spezie al vino: Aristotele racconta di una decozione che si faceva con acqua e spezie e che poi veniva aggiunta al vino.
 

Qual era il legame del vino con la poesia e con la comunicazione tra le persone?

Diciamo che nell’antica Grecia si pensava che non si potesse consumare vino in modo civile per il solo gusto del bere, soprattutto se fatto in solitudine. Il vino andava consumato in compagnia: aveva bisogno di un contorno fatto di conversazione e di interazione tra le persone. Tutto ciò, in genere, si realizzava durante il simposio.

Quando si beveva il vino si parlava, si cantava e si facevano indovinelli; si svolgeva anche una sorta di gara poetica: tutti dovevano partecipare, con poemi propri oppure recitando versi di altri autori noti.

Bere il vino veniva abbinato anche a dei giochi di abilità. Ad esempio, c’era il Kottabos, uno degli intrattenimenti meno intellettuali del simposio. Consisteva nel colpire un bersaglio con le gocce di vino residuo rimasto nella coppa.

(Kottabos)

Quanta importanza veniva attribuita al senso della misura nell’approccio al vino?

Era un elemento decisamente importante durante il simposio, che era un’attività molto regolata. Il simposio cominciava con un canto alla divinità per chiedere protezione. Nella fase iniziale veniva scelto uno dei partecipanti per fare il simposiarca, la figura che doveva stabilire le regole: quanto bere, le attività da fare (canto, giochi, ecc.) e, più in generale, come doveva svolgersi il banchetto. Si lasciava anche spazio all’improvvisazione e per avere un’idea di ciò basta leggere “Il Simposio” di Platone: è un’opera di filosofia che, però, ha una cornice. E la cornice è un banchetto, alla fine del quale si comprende che le regole e i buoni propositi sono importanti, ma non sempre sono sufficienti a impedire che ci si allontani dalla direzione tracciata. Potremmo ricavare l’idea che c’è una tensione tra quello che si considera giusto e la realtà, che non sempre è come ci si auspica; e poi ci si mette anche il fatto che Dioniso è imprevedibile e fa quello che vuole.
 

Secondo i greci antichi il vino svelava la reale natura delle persone, un concetto che si è poi consolidato successivamente nel proverbio latino “in vino veritas”. È una fotografia fedele della percezione che si aveva del fatto che anche allora il vino scardinasse le sovrastrutture e facesse cadere le maschere?

È proprio così. La prima occasione in cui troviamo questa idea è in Alceo, che dice che il vino è verità; un concetto che si è mantenuto per tutta l’epoca ellenistica e per molti secoli successivi.

Gli antichi greci dicevano anche che il vino abbellisce tutto. Ma è decisamente condivisibile il fatto che il vino fa venire fuori la nostra vera natura.

(Prof.ssa Marìa José Garcìa Soler)

Torniamo a parlare di lei. Sente di avere un legame particolare con l’Italia?

Posso dire chi il mio rapporto con l’Italia è soprattutto sentimentale, nel senso letterale del termine: ho tanti amici italiani e, con grande piacere, mi sento molto vicina all’Italia. La prima volta che sono stata nel Bel Paese ero appena laureata e avevo cominciato a lavorare all’università; ricordo ancora il lunghissimo viaggio in pullman dalla Spagna, con un gruppo di studenti di Storia dell’arte di cui faceva parte un collega con cui collaboravo in un libro.

Ho poi avuto l’opportunità di imparare l’italiano in facoltà, con una collega sarda. Dopo qualche tempo, chiesi una borsa di studio per andare in Germania a imparare il tedesco ma non accettarono la mia richiesta. L’anno successivo optai per l’Italia: mi concessero una borsa di studio di due mesi a Perugia. Decisi di non prendere un appartamento per conto mio ma chiesi ospitalità ad una famiglia tutta al femminile: nonna, mamma, figlia, cagna e gatta; per molto tempo è stata la migliore estate della mia vita.

Anche il mio primo convegno universitario è stato in Italia, a Bolzano per la precisione.

Posso dire senza esitazione che quando vengo in Italia mi sento a casa. E quando vado via dall’Italia una delle cose che mi mancano di più è la pasta.
 

Come da nostra consuetudine, chiudiamo l’intervista con queste due domande: quali sono i suoi luoghi del cuore? E quelli dell’anima?

Il mio luogo del cuore è San Sebastian, il posto dove abita il mio compagno e dove trascorro la metà della mia vita.

E poi Águilas, il paese in cui sono nata; si trova nel Sud della Spagna, con un mare bellissimo e un carnevale spettacolare. Non posso dimenticare le mie radici.

Il mio posto dell’anima sono i libri. È un luogo metaforico ma denso di emozioni. Ricordo quando da piccola prendevo un libro da leggere e mia madre mi chiamava più volte ma io non la sentivo, non riuscivo ad uscire dalla meravigliosa dimensione in cui quella pagine mi avevano portato.