(Marco in panchina)

 

Ciao Marco. Sei nato a San Marino: che rapporto hai con le tue origini?

Sono particolarmente felice di rappresentare San Marino in giro per il mondo, perché in pochi la conoscono: capita spesso che i miei interlocutori dicano di conoscerla ma, a volte, approfondendo il discorso viene fuori che il posto che conoscevano era Sanremo, e non San Marino. La cosa mi dispiace un po’ perché, anche se si tratta di uno Stato piccolissimo, è comunque la più antica repubblica al mondo.
 

Raccontaci di te, della tua vita quando non eri ancora allenatore di calcio.

Ho sempre fatto calcio. Ho dovuto interrompere troppo presto la mia attività agonistica a causa di un grave infortunio. Poi, mentre lavoravo in un’azienda informatica, ho studiato per diventare allenatore: ho seguito il master per diventare preparatore atletico e in seguito quello da preparatore dei portieri, fino ad arrivare al conseguimento della licenza UEFA Pro, qualifica per allenatori che ambiscono ad un profilo internazionale.
 

Nello staff tecnico di quali squadre italiane hai avuto esperienze?

Ho fatto esperienze nello staff tecnico del Modena calcio quando era in serie A e poi del San Marino sia in serie C1 che in C2 del campionato italiano. Invece, a Riccione ho avuto modo di fare prima l’allenatore e poi il presidente.
 

Per capire che quelle più numerose le hai fatte in club esteri, basta guardare il tuo curriculum: Slovacchia, Nigeria, Portogallo, Repubblica Democratica del Congo, Tajikistan, Svizzera, Grecia, Repubblica Ceca, Lituania, Malesia e Mongolia. Parlaci della tua avventura in Mongolia.

Quella in Mongolia è stata l’esperienza che mi è rimasta più impressa. Era la prima volta che andavo a lavorare in Asia, un continente immenso e che desideravo conoscere. In particolare, la Mongolia è stata una destinazione molto particolare se considero il fatto che da piccolo ero appassionatissimo di libri di storia e adoravo Gengis Khan e le sue conquiste: ritrovarmi in un territorio che sognavo fin da bambino è stata una coincidenza singolare.

Ho potuto conoscere una cultura completamente diversa dalla nostra, un modo di approcciare agli stranieri decisamente differente da quello a cui siamo abituati. Inoltre, è un Paese che riesce a far coesistere con grande armonia tradizione e modernità. E, ovviamente, la cultura del popolo mongolo è fortemente influenzata anche dalla religione: durante la mia permanenza in Mongolia ho potuto toccare con mano tutti gli aspetti del buddismo di cui mi aveva parlato Roberto Baggio, mio compagno di corso a Coverciano.

Mi affascina molto il modo di vivere dei mongoli, caratterizzato da una grande capacità di adattamento e dalla propensione al sacrificio. Il territorio del Paese è davvero esteso ma la maggior parte della popolazione è concentrata nella capitale Ulan Bator.

Nei mesi freddi la temperatura può arrivare anche a -35°C e, siccome il paesaggio è tutto innevato, i pastori dalle campagne ripiegano verso le zone limitrofe alla periferia della capitale perché non c’è più pascolo per il loro bestiame. Vivono nelle gher e per scaldarsi bruciano di tutto; uno degli effetti indesiderati è che l’aria diventa irrespirabile.

Anche gli spostamenti sono impegnativi: ricordo molto bene che quando andavamo a giocare in trasferta, dovevamo raggiungere luoghi che distavano anche 6 o 7 ore di bus da Ulan Bator e lungo i percorsi non vi erano né il manto stradale né i servizi che ci potremmo aspettare noi europei.

Ma, nonostante le difficoltà e le fatiche, la gente in Mongolia è sempre sorridente e serena. Devo dire che ho imparato molto dal popolo mongolo e gli insegnamenti che ho potuto trarre dalla mia permanenza in questo Paese hanno inciso molto sul mio carattere: ho capito che spesso siamo noi ad enfatizzare le situazioni, perché ciò che oggi può rappresentare un problema domani può non esserlo. Oppure domani potrei avere un problema molto più grande per cui la situazione del giorno prima può finire derubricata a finto problema.

(Steppa della Mongolia)

E di quella nella Repubblica Democratica del Congo cosa puoi raccontarci?

È stata un’esperienza molto forte. Ricordo che quando arrivammo alle quattro del mattino all’aeroporto di Kinshasa non capivo bene dove mi trovassi. Poi, al risveglio, quando sono andato al centro sportivo per guidare il primo allenamento, attraversando le strade della capitale ho avuto netta la percezione di essere in un contesto completamente nuovo per me. È un Paese molto complesso, circa il 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e la maggior parte della ricchezza è concentrata nelle mani di un’esigua minoranza. Vedere questo contrasto fa male. È un vero paradosso se si pensa che il sottosuolo di questo Paese è ricco di materie prime e diamanti.

In genere, le persone sono molto gioiose e religiose, di religione cattolica. Ricordo che prima di ogni allenamento bisognava pregare e scegliere il giocatore che sarebbe stato beneficiario delle nostre preghiere.

Invece, durante la guerra civile su tutto ha prevalso la rabbia e in strada si sono riversate più di un milione di persone; io ero molto preoccupato, temevo che i manifestanti rivoltosi potessero arrivare al centro sportivo in cui eravamo. Siamo stati rinchiusi al sicuro per una settimana circa e, appena la situazione lo ha consentito, siamo fuggiti in direzione dell’aeroporto e siamo ritornati a casa. Questi avvenimenti mi hanno segnato profondamente.
 

In quali altre nazioni ti piacerebbe allenare?

Mi piacerebbe moltissimo allenare in Giappone. Era il mio pallino già da ragazzo, quando giocavo a calcio; figuriamoci ora da allenatore.

Mi piace molto il paesaggio e ritengo la cultura giapponese esemplare.

Poi, sia in Mongolia che in Malesia ho avuto calciatori giapponesi nelle squadre di cui ero allenatore. È stato un privilegio lavorare con loro: erano rispettosi, anche perché generalmente loro vedono l’allenatore come un maestro di calcio e di vita. Al termine degli allenamenti pulivano tutto lo spogliatoio. Posso dire che avevano rispetto per le persone, per i ruoli, per le cose e per i luoghi.

Inoltre, il calcio in Giappone è cresciuto con i ritmi giusti, gradualmente. Il tasso tecnico del loro calcio è altissimo; è un condensato di qualità e intensità. Credo che il futuro del calcio sarà in Giappone e Korea del Sud.

Per tutti questi motivi mi piacerebbe fare un’esperienza nella terra del Sol Levante, anche a lungo termine.
 

Per te il calcio sembra rappresentare un vettore che ti consente di varcare orizzonti, di viaggiare tra le culture e i popoli del mondo; più che un fine è un mezzo esperienziale. È così?

Sì, è proprio così. Mi ritengo molto fortunato perché riesco ad unire le mie due più grandi passioni: il calcio e il viaggio.

Il viaggio è una palestra di vita quotidiana. Vivere con le persone di un luogo, conoscere e toccare con mano gli aspetti della loro cultura, condividere con loro pranzi e cene, incarna il senso che io attribuisco al viaggio.

Sono stato in tanti Paesi e credo che mi abbia migliorato dal punto di vista culturale, ma soprattutto come uomo. Ho avuto modo di conoscere altre culture, diverse dalla nostra, e di sperimentare la condivisione con maggiore frequenza rispetto al passato. Questo mi ha consentito di diventare più altruista. Così ho imparato ad essere più empatico con i miei giocatori: quando ad alcuni di loro capita di disputare una partita non all’altezza, al termine della gara io resto molto tranquillo, anche perché non è possibile cambiare il risultato. Lascio trascorrere qualche giorno e alla ripresa degli allenamenti cerco di parlare con i miei ragazzi per provare a capire come stanno e se hanno qualche problema in famiglia. Cerco di entrare nella frequenza dei miei calciatori.

(Marco con un suo calciatore)

Che rapporto hai con il sentimento della nostalgia?

Ora vivo in Tajikistan. Lavoro per la federazione calcio.

Io e mia moglie Martina ci troviamo molto bene. Qui la gente è davvero molto cordiale. Sono a 7.000 km da San Marino ma per me casa è dovunque c’è Martina.

Il mio rapporto col sentimento della nostalgia non è molto vivido. Mi piace tornare nella mia terra di origine, ma più per vedere se qualcosa è cambiato. Ci sto molto volentieri ma dopo un mesetto ho bisogno di ripartire e assecondare la prorompente curiosità che nutro nei confronti di altre culture, di altri luoghi.

(Marco e Martina)

Quali sono le persone che più hanno inciso nella tua vita?

Senza alcun dubbio la persona che ha inciso e incide di più nella mia vita è mia moglie Martina. Ci siamo incontrati quando allenavo in Slovacchia. Da quando l’ho conosciuta tutto è cambiato in meglio. Condividiamo tutto e caratterialmente ci compensiamo molto. Lei è molto brava a capire le persone e rappresenta un supporto prezioso nelle mie valutazioni e nelle mie scelte. Credo di essere migliorato anche nel mio lavoro grazie al fatto che Martina mi dà stabilità e tranquillità.
 

Quali sono i tuoi luoghi del cuore? E quelli dell’anima?

Se devo pensare ad un luogo del cuore mi viene in mente la mia terra di origine: lì ho tanti ricordi, calcistici e di vita vissuta.

I miei luoghi dell’anima, per cultura e atmosfera, li ritrovo nell’Asia orientale.

Le mie esperienze nei Paesi asiatici mi hanno insegnato tanto e, soprattutto, che bisogna riversare tutte le energie sul presente; fare ciò, con buona probabilità, ti porta ad avere un futuro migliore.

In cima alla lista dei miei luoghi dell’anima c’è il Giappone. Perché è un Paese che mi trasmette un’energia particolare e mi dà molta armonia. E poi perché tra i pilastri della cultura dei giapponesi ci sono certamente il rispetto e l’educazione, due temi che ritengo fondamentali nelle relazioni tra le persone.

Grazie Marco.