All’epoca dei fatti avrò avuto circa quattordici anni e facevo il servo pastore per Perto Martredu in località Perastro. Lì trascorrevo le mie giornate a badare al bestiame e a scrutare l’orizzonte. Mi capitava di non incontrare un essere umano per giorni e a spezzare il silenzio era solo il vagare mansueto delle bestie o il rincorrersi libero dei miei pensieri. Rientravo in paese solo una o due volte al mese e solo in occasioni particolari che potevano giustificare la mia assenza agli occhi di ziu Martredu.
A ripensarci oggi… potrei dire che è stato un privilegio. E’ stato un privilegio poter sostare per ore seduto su graniti e basalti a cercare di capire il segreto del linguaggio che consente, a migliaia di formiche apparentemente smarrite, di ritrovare miracolosamente la strada di casa; oppure lo è stato il poter osservare le tecniche di caccia di una coppia di poiane che dimorava lì intorno, da qualche parte oltre la sughereta; oppure, ancora, lo è stato il trascorrere del tempo nel tentativo di farmi accettare da una lucertola diffidente accostatasi solo per assorbire, attraverso il suo manto puntellato di smeraldo, il calore emanato dallo stesso masso su cui mi ero appoggiato anche io per lo stesso motivo.
Ma in verità, a quel tempo, stare lontano dai miei cari e dagli amici mi sembrava solo l’unico doveroso sacrificio possibile per contribuire al sostentamento della mia famiglia.
In primavera, un giorno, alcuni passanti che attraversavano il terreno intorno all’ovile mi dissero che quella sera ci sarebbe stata, nella sala parrocchiale, la proiezione di un film con protagonista Amedeo Nazzari e che mezzo paese si sarebbe riunito per assistervi. In cuor mio pensai che certamente quella per me sarebbe stata un’occasione per svagarmi ma non una scusa abbastanza valida da farmi ottenere il permesso di lasciare incustodito il gregge. Mi arrovellai per un po’ alla ricerca di una soluzione ma conclusi che, se anche avessi voluto informare il padrone, sicuramente la missiva non sarebbe arrivata al suo orecchio in tempo utile; così mi sforzai di scardinare il senso del dovere così saldamente arroccato dentro di me e decisi che mi sarei assentato comunque per un poco, quanto bastava per assaporare solo un po’ di leggerezza.
Trascorsi la giornata a premeditare come infrangere il mio esilio, preoccupandomi di attuare tutte le precauzioni possibili per salvaguardare le sorti del gregge. All’imbrunire abbandonai l’ovile, munito di una piccola torcia e, per evitare che i malintenzionati mi vedessero e intuissero che il bestiame era incustodito, mi avviai lungo un tratturo tra le campagne fino ad arrivare nei pressi di una mulattiera che costeggiava il cimitero fuori paese e che mi consentì di raggiungere in breve tempo la parrocchia. Decisi appositamente di entrare in sala solo dopo qualche minuto dall’inizio della proiezione, in modo tale che tutti i compaesani fossero già seduti e intenti a guardare lo schermo; mi posizionai in fondo, al buio, per non farmi notare. Per lo stesso motivo decisi che sarei scappato via poco prima della fine.
Così feci e, consapevole che non avrei potuto godere delle scene finali, scappai poco prima delle undici e mi diressi veloce verso l’ovile. Lasciai presto dietro le spalle le poche luci delle ultime casupole di pietra e mi addentrai dentro la boscaglia, percorrendo a ritroso la medesima via dell’andata che però ora, complice la notte, mi appariva meno familiare e sicura rispetto a qualche ora prima, costringendomi a ricatalogare continuamente i profili dei massi e degli alberi solitamente noti. Man mano che il buio diventava più fitto i passi, tra i sassi e i pertugi, divennero sempre più incerti e arrivai a costeggiare il cimitero in uno stato d’animo in allerta. Tentennai nello sforzo di scacciare la più atavica delle paure, la più scontata delle superstizioni, attingendo a tutta la razionalità che avevo potuto accumulare fino ad allora nella mia giovane vita.
Affrettai il passo mentre cercavo di ripensare a qualche fotogramma che potesse distogliermi dai timori che iniziavano ad affastellarsi nella testa e finii per rimproverarmi per l’inutile rischio corso. E se le pecore fossero state rubate cosa avrebbe detto ziu Martredu?
L’aria era fina ma si stava alzando un vento leggero che a tratti scuoteva i rami delle querce e le sue foglie, facendole tintinnare, e tutto intorno un susseguirsi di brusii provocati dalla corsa dell’aria che si faceva largo tra l’erba alta e gli arbusti che intravedevo in penombra grazie alla lucina della torcia. Il perimetro esterno del cimitero culminava con un groviglio di rovi che si avvinghiava ad un vecchio muretto a secco parzialmente diroccato che scavalcai trovandomi presto in cima.
Fu in questo istante che accadde un avvenimento che non ho più potuto dimenticare.
Ancora chino, piegato sulle ginocchia, sentii come un freddo al collo in corrispondenza delle prime vertebre, poi un rumorio come uno strascicare, poi una folata, un fruscio e una mano sulla testa che mi afferrò il berretto portandolo via. Istintivamente puntai la torcia tutto intorno, frenetico e terrorizzato, ma non vidi niente e nessuno; mi alzai rapido, guardai ancora, stavolta verso il basso alla ricerca del cappello; roteai su me stesso ma il mio compasso di luce anche questa volta mi lasciò senza risposte. Ricordo distintamente che provai una paura del tutto diversa da quelle che avevo provato fino a quella notte. Conoscevo la paura davanti al pericolo per un animale selvatico, per il cane rabbioso, per l’uomo furente o folle, ma fino ad allora ignoravo la paura che ci sovrasta quando siamo dinnanzi al mistero di certi accadimenti.
Corsi, corsi a lungo, forse volai perché non ricordo come oltrepassai gli altri tre muri che occorreva varcare lungo il sentiero ma so solo che arrivai all’ovile trafelato e sconvolto e lì, solo, senza nessuno a cui poter raccontare l’accaduto, rimasi sveglio incagliato nei miei pensieri.
Anima viva non poté calmarmi. Anime morte assiepavano i miei sonni se solo mi assopivo stremato.
Passai la nottata a rigirarmi sul giaciglio come un cilindro di carne che scorre sulla spianatoia. Sopraggiunse l’alba e con lei ziu Martredu di passaggio da un terreno vicino in cui si era recato per alcuni affari. Scambiai solo qualche parola ma non feci cenno alla disavventura perché avrebbe significato confessare la mia negligenza. Cercai di scuotermi e incominciai le mie attività quotidiane; occorreva accudire le pecore e portarle al pascolo ma sentivo il mio corpo più debole a causa della febbre che iniziava a salire. Intravidi in lontananza mio padre e mi ricordai che era domenica. Lui usava, alla fine di ogni settimana, venire a trovarmi per controllare come stessi. Notò subito che ero smunto e che non indossavo il mio solito cappello per ripararmi dal sole e me ne chiese conto con insistenza. Fu così che crollai e gli raccontai i fatti. Si decise che sarei rientrato in paese con lui fintanto che non mi sarei ripreso da quello stato di confusione e prostrazione fisica che ormai aveva preso il sopravvento su di me.
Volle ripercorrere esattamente lo stesso tratto della sera precedente. Costeggiammo il cimitero dalla parte opposta, attraverso un altro vicoletto, nel tentativo di identificare, con la luce del giorno, il punto in cui io avevo avvertito la sinistra presenza. Non si riuscì perché il muro di cinta ne nascondeva la vista. Mio padre risalì verso un punto più alto da cui si poteva scorgere l’interno del cimitero in gran parte della sua interezza. Osservò e mi invitò a sforzarmi di raggiungerlo. Giunto in sommità mi indicò un punto preciso, una tomba con una croce molto particolare, di ferro intagliato in un’epoca in cui quasi tutte le croci erano di legno.
In cima alla croce, adagiato come un presagio, un berretto: il mio!
Scendemmo dal muretto e girammo tutt’intorno al perimetro del cimitero; i cancelli erano chiusi, nessuno la sera prima avrebbe potuto entrare o uscire. Mio padre decise che occorreva entrare e mi mandò a chiamare Mideri, il becchino, affinchè ci aprisse i cancelli del camposanto e potessimo recuperare almeno il cappello. Del resto, era l’unico berretto nuovo che possedevo.
Mideri arrivò e ascoltati i fatti pronunciò una frase che mi raggelò, come a sentenziare la natura malvagia del defunto autore della mia disavventura.
“ Appo cumpresu! Cussu dirgrasciau er galu a giru!” (Ho capito! Quel disgraziato vaga ancora!).
Recuperammo l’indumento e poi proseguimmo, su spinta del custode, alla ricerca del punto in cui durante la notte avevo superato il primo muro. Ci fermammo in osservazione davanti alla parete di rovi che incatenava i conci di pietra. Mio padre avanzò, Mideri seguì e con il suo bastone si mise a battere scuotendo i rami di spine e questo bastò per far uscire da una fessura un enorme, bianco, maestoso barbagianni che volò via.
S’istrìga* aveva fatto il suo nido proprio lì e il suo spirito di protezione verso i piccoli, la sera prima, l’avevano spinta ad attaccarmi, afferrando con i suoi artigli il mio berretto che poi, nell’appoggiarsi ai rami della croce, aveva abbandonato lì appeso dove lo avevamo poi ritrovato.
Questo mi salvò.
Mio padre mi aveva spinto verso la ricerca di una spiegazione comprensibile evitando, forse inconsapevolmente, che potessi trascorrere il resto della mia vita condizionato e pavido. Ero stato ad un bivio da cui in futuro sarebbero potute dipendere molte delle mie convinzioni o credenze, ero stato alla fonte da cui derivò il mio coraggio negli anni che seguirono.
Per onor di cronaca non ometterò di dire che, siccome con i rimedi a fatti così spaventosi è sempre meglio non lesinare, i miei genitori ritennero opportuno portarmi da Lenedda per farmi fare “sa medichina e s’assustu” (la medicina contro lo spavento).
Di quel rituale ho solo una vaga visione perché barcollavo ancora per la febbre. Conservo l’immagine della vecchia che pronunciava litanie a ritmo sincopato mentre buttava tizzoni ardenti dentro un catino di alluminio pieno d’acqua. Infine, lo ripulì grossolanamente e mi fece sorseggiare un cucchiaio di quella fanghiglia.
Non ricordo altro, se non un senso di liberazione che iniziò a pervadere il mio corpo facendomi sentire leggero, finalmente.

“IL MAESTRO
CHE VA INCONTRO ALL’OSTACOLO NONOSTANTE SIA CIECO,
INSEGNERA’ ANCHE AL DISCEPOLO ZOPPO
IL CORAGGIO DI SALTARE”

*Istrìga : letteralmente “strega”, nome sardo con cui viene definito il barbagianni