(“Tuffo”, di Antonio Sorace)

Andreina De Tomassi è una giornalista. Ha scritto per La Repubblica dal 1978 al 2005.

Antonio Sorace è un’artista, scultore per la precisione. È stato imprenditore. Per molti anni, grazie alla sua passione per la scrittura e la fotografia, ha collaborato con la testata giornalistica fondata da Eugenio Scalfari.

Andreina e Antonio si conoscono verso la fine degli anni ’80. Decidono di lasciare la capitale e scelgono di vivere al Furlo, nelle Marche. A Sant’Anna del Furlo, località del comune di Fossombrone, nel 2011 fondano La Casa degli Artisti, un’associazione culturale filantropica e residenza creativa.

(Casa degli artisti)

Ciao Andreina. È proprio vero che il temperamento si evidenzia già in tenera età: ci racconteresti che bambina eri e dell’episodio dell’insegnante di disegno?

Ero in seconda media. Bisognava disegnare un’anfora che l’insegnante aveva poggiato sulla cattedra. Io ho preferito disegnare un paesaggio; se non ricordo male si trattava di un tramonto. La docente mi fece notare che avrei dovuto disegnare l’anfora e io le risposi che a me quell’anfora non piaceva. Si infastidì molto, mi prese l’astuccio dei colori e me lo buttò dalla finestra. Io e mia madre vivevamo in condizioni di ristrettezza economica e i colori costavano molto: mi arrabbiai così tanto che mi alzai, andai verso la cattedra, presi il registro dell’insegnante e lo lanciai dalla finestra. Ricordo che il preside mi diede tre giorni di sospensione. La professoressa, invece, non subì alcun provvedimento disciplinare. Un esito della vicenda che trovai profondamente ingiusto. E, probabilmente, è proprio in occasione di questo episodio di ingiustizia che ho scoperto la mia grinta rivoluzionaria.

E poi, l’anno dopo, in terza media l’associazione culturale Monteverde organizzò un premio per il tema più bello su Don Milani e sul suo libro Lettera a una professoressa. Lo lessi tutto e scrissi un tema nel quale evidenziai il mio apprezzamento entusiastico della sua pedagogia, che non prevedeva esami e voti e che sottolineava l’importanza fondamentale del partire dal bambino e dai suoi problemi, non dai dettami del regolamento scolastico. In palio c’erano dei libri e io vinsi il premio. Noi a casa avevamo pochissimi libri e quindi per me fu una gioia fantastica.

Queste vicende mi hanno forgiata. Successivamente ho partecipato al movimento studentesco, mi sono iscritta al PCI e nella sezione di Monteverde ho fatto un lavoro di base; sono stati dieci anni bellissimi perché lavoravo per la gente e con la gente: abbiamo aperto asili nido e abbiamo riaperto Villa Pamphilj. Il lavoro di quartiere e l’associazionismo culturale mi sono piaciuti molto. È sempre stato così.

(Andreina De Tomassi)

Ti sei cimentata in diversi ambiti: sport, cinema e giornalismo. Partiamo con il lancio del disco e col dire che sei stata campionessa juniores.

Sì, sono stata campionessa juniores di lancio del disco. Avevo circa quindici anni. Facevo tantissimi allenamenti e, siccome mi sottraevano tanto tempo, dovevo studiare anche di notte. È stata una bellissima esperienza che però, purtroppo, è stata funestata da un episodio di shock anafilattico che ebbi in una piscina e che comportò un enfisema polmonare bilaterale. E così sono stata costretta a smettere.
 

E poi, ad un certo punto, hai sfiorato l’ingresso nel mondo del cinema. Ripensi mai alla proposta di Franco Giraldi?

Franco Giraldi mi voleva come protagonista del film La bambolona. Il protagonista assoluto del film era Ugo Tognazzi, io avrei dovuto fare la coprotagonista. Ricordo che lui venne anche a casa a parlare con mia madre cercando di convincerla ma lei gli rispose che avrei dovuto decidere io. E, anche perché ero stata rimandata in qualche materia, confermai il mio rifiuto. Rinunciai a questa opportunità nel mondo del cinema e anche a un’offerta economica davvero invitante. Ho sempre amato studiare, leggere, imparare. Sono stata sempre una persona curiosa. Ancora oggi leggo tantissimo: saggistica, pochi romanzi, e mi piacciono le poesie.
 

Nel 1978 ha inizio la tua esperienza a La Repubblica e dopo poco più di dieci anni passi a Il Venerdì. Cosa ha significato essere giornalista in uno dei più importanti gruppi editoriali del nostro Paese?

In realtà a me non importava molto del giornalismo perché il mio sogno era fare l’insegnante.

Sono entrata a La Repubblica come segretaria di redazione. Poi nel 1980 mi sono laureata in Sociologia dell’arte e della letteratura. Scelsi Urbino perché era l’unica Facoltà, assieme a Pavia, ad essere aperta in agosto e che, quindi, mi consentiva di utilizzare le mie ferie estive per studiare. Feci una tesi sulla sociologia dell’arte e della letteratura applicata a Napoli post-unitaria, una delle cose più belle che ho fatto nella mia vita. Optai per fare la giornalista per una questione economica, perché si poteva guadagnare uno stipendio più alto.

Prima ho fatto l’esame di praticantato e poi progressivamente sono diventata redattrice ordinaria, redattrice esperta, vice caposervizio, caposervizio e infine inviato speciale. E poi, anche grazie alla mia fantasia, ho inventato Il Cartellone e TrovaRoma, e poi tutta la seconda parte de Il Venerdì, quella relativa alle pagine di cultura, spettacolo e televisione.

Poi, dal 1999 al 2005 ho fatto l’inviata “sradicata”, cioè fuori dalla redazione.

Sono comunque molto contenta del mio lavoro: ho fatto il mio dovere e mi sono divertita.
 

Quali sono state le opportunità che la professione di giornalista ti ha dato e quali sono state le fatiche a cui ti ha messo di fronte?

Io stavo agli spettacoli, per cui ho avuto la possibilità di conoscere e intervistare tantissimi grandi attori: Alberto Sordi, Monica Vitti, Maria Angela Melato. E, sempre, queste interviste erano cariche di umanità e, quindi, sono state molto apprezzate.

Ma mi sono occupata anche di temi sociali: ricordo bene l’intervista che feci alla figlia di Totò Reina quando era stata eletta capoclasse.

La fatica per me era rappresentata dai dossier: dalle dodici alle quindici pagine da chiudere in poco tempo e che ti costringevano a ritmi davvero impegnativi.

Con Eugenio Scalfari in diverse occasioni ci siamo confrontati in modo deciso. Ricordo che ero nel comitato di redazione assieme a Sandra Bonsanti e facemmo una lotta per l’equiparazione degli stipendi tra donne e uomini: le prime guadagnavano un 30% in meno a parità di inquadramento. Perdemmo questa battaglia perché molte giornaliste non si schierarono con me e Sandra e io mi dimisi dal comitato di redazione.

Ma il rapporto tra me e Scalfari era caratterizzato da stima reciproca. Ci siamo scritti fino a poco tempo prima che venisse a mancare.
 

Qual è il pezzo o l’intervista che più ti porti nel cuore? E gli incontri memorabili?

Tra le tante interviste me ne vengono in mente tre.

Sicuramente quella a Gian Maria Volonté è stata molto bella. Ricordo che, assieme ad Antonio, trascorsi un’intera giornata a casa sua.

Poi l’intervista a Monica Vitti, perché in seguito a quella conversazione diventammo amiche. E, infine, l’intervista fatta a Mariangela Melato.

E tra gli incontri memorabili ci metto certamente quello con Dario Fo; il rapporto che ho avuto con lui è stato per me molto importante.

(Diga del Furlo)

Ad un certo punto tu ed Antonio lasciate Roma e decidete di vivere nella regione delle vostre mamme, le Marche. Quali sono i fattori che hanno determinato questa scelta e come mai avete scelto Fossombrone?

Io e Antonio ci siamo messi insieme nel 1987 e subito abbiamo cominciato a parlare della fuga dalla città e delle Marche, del Furlo in particolare. Adoriamo questo canyon meraviglioso. E poi sua mamma era del Passo del Furlo e mia mamma di Pesaro: diciamo che eravamo già indirizzati verso un rapporto speciale con questa regione.

Per noi la vita a Roma era diventata poco sostenibile e i fattori che ci hanno spinto a scegliere un’altra dimensione sono stati tanti; tra questi ci possiamo mettere l’inquinamento dell’aria così come quello determinato dai rumori, le difficoltà enormi nel trovare parcheggio, i rapporti umani sbrindellati. Ambivamo a una diversa qualità della vita.

Siamo stati prima ad Acqualagna, qui vicino, e poi nel 2003 siamo venuti a S. Anna del Furlo.

E qui Io ho potuto dedicarmi all’associazionismo culturale e alla comunicazione, due mie grandi passioni; Antonio ha potuto dedicarsi alla sua: la scultura. Lui fa anche grandi opere e qui avrebbe avuto ampi spazi a disposizione, cosa che in città sarebbe stata più difficile.

(“Oltre l’ego”)

Da cosa nasce l’idea della Land Art?

Nel 1992 abbiamo conosciuto Antonio Presti di Fiumara d’arte, in Sicilia. Lui ci ha ispirato e abbiamo sentito il desiderio di fare Land Art, l’arte nel paesaggio. Inoltre, qui vicino, a Mondaino c’è una residenza creativa per danzatori. Io e Antonio abbiamo messo insieme le due cose e ne è venuta fuori Land Art al Furlo, cinque ettari all’interno dei quali abbiamo creato una residenza per artisti e un parco dove realizzare Land Art.

E Antonio Presti nel 2010, facendoci un regalo molto apprezzato, venne qui da noi ad inaugurare la prima opera di Land Art; fu una cosa molto bella.

(“La porta”, di Valfrido Gazzetti)

Ci parleresti della Land Art?

La Land Art nasce negli Stati Uniti negli anni ’60. Viene realizzata in grandi spazi, anche nei deserti. Subito dopo attecchisce anche in Europa. Successivamente le opere raggiungono anche le grandi città, soprattutto nei parchi. Poi c’è quest’ultima fase della sua evoluzione che è caratterizzata da una forte impronta ecologista e da un grande rispetto della natura. Forse, se le amministrazioni pubbliche capissero a pieno che l’arte può essere un volano straordinario per il turismo “cortese”, potrebbe esserci anche una quarta fase dello sviluppo della Land Art; basti pensare che quando Christo ha realizzato la passerella sul lago d’Iseo, circa un milione e mezzo di persone si sono recate fisicamente in quel luogo e hanno capito che cos’è la Land Art.

Noi ci avviamo al quindicesimo anno di vita della Land Art al Furlo, anche grazie al fatto che ci siamo dati una importante struttura organizzativa: abbiamo un curatore, che è Andrea Baffoni, storico dei futurismi; abbiamo come vicepresidente Elvio Moretti, professore dell’Università di Urbino; all’ufficio stampa abbiamo Roberta Melasecca; e abbiamo un curatore del verde. Tutti diamo un contributo fattivo, sempre nell’ambito del volontariato. Nel nostro statuto abbiamo come pilastri i concetti di arte sostenibile e di biodiversità.

Noi qui ospitiamo gli artisti, dando vitto e alloggio gratuiti; loro in cambio ci lasciano l’opera. Si tratta di un vero e proprio baratto culturale.

(Antonio Sorace)

Ciao Antonio. È esaustivo definirvi mecenati e filantropi?

Siamo dei volontari dell’arte ma, in particolare, mi piace definirci mecenati pensionati. Penso che le persone della nostra età dovrebbero donarsi e donare, perché nel dono si riescono a trovare delle motivazioni per vivere in modo stimolante la pensione. Nel momento in cui si mettono a disposizione degli altri le proprie capacità e il proprio tempo si fa fare alla propria vita un salto di qualità notevole. Abbiamo dato spazio a tantissimi artisti giovani che, probabilmente, non avrebbero avuto quella visibilità che è fondamentale per farsi conoscere. In qualche caso è anche capitato che qualche artista si sia reso conto che la propria opera non fosse riuscita. Sì, perché penso che un vero artista debba essere capace di buttare il cuore oltre la siepe ma, se opportuno, deve anche essere in grado di andarlo a riprendere.

(“La tavola dell’accoglienza”)

Ci parleresti di qualche opera che è presente nel parco della vostra residenza?

Un’opera di cui ci piace parlare è la Tavola dell’accoglienza. Qualcuno diceva che con l’arte non si mangia, noi invece pensiamo che con l’arte ci si mangia e ci mangiamo addirittura sopra: abbiamo creato questa tavola di sedici metri di lunghezza partendo dal riciclo di pannelli per l’edilizia. È stata la prima esperienza nella quale non si osserva più il quadro appeso alla parete ma lo si guarda in orizzontale, lo si usa mangiandoci sopra. È un tavolo che si può portare in giro perché i pannelli sono rimontabili su cavalletti.

Poi c’è stato un ulteriore passo, quello di far calpestare l’arte: ogni artista ha a disposizione una piazzola di due metri per uno e farci sopra la propria opera. Tutte queste piazzole che compongono Il cammino dell’arte sono percorribili, d’estate a piedi scalzi, in modo tale che sia la vista sia il tatto possano interagire con l’opera; poi, siccome le piazzole sono in un bosco, si possono sentire i profumi e i suoni dell’ambiente in cui le opere sono immerse. Quindi, in questo caso, l’arte non viene vissuta solo attraverso la vista ma con un approccio multisensoriale.

Riteniamo che questo modo di vivere l’opera d’arte consenta di amarla, di non viverla con distacco e la rende più fruibile.

(“Il cammino dell’arte”)

Chi sono i vostri visitatori e che rapporto avete con loro?

Il rapporto col pubblico è, gramscianamente, nazional-popolare. Nel senso che le persone che vengono a trovarci in pochi casi sono stati in una galleria d’arte o in un museo. Qui da noi le opere possono guardarle, toccarle e viverle.

Riceviamo anche tante scolaresche: e devo dire che i bambini che non hanno ancora raggiunto i dieci anni d’età e che non sono intrappolati nell’interazione con gli schermi si divertono, giocano, fanno domande. Interpretano le opere di Land Art come pochi critici sarebbero in grado di fare: sì, perché sono scevri da condizionamenti e seguono l’istinto.

E poi le persone vengono da tutta l’Europa per vedere questo posto. È davvero bello: ci aiuta molto la natura. Qui regna lo stupore. E, come dice Andreina, lo stupore è l’inizio della scienza.

(“L’abbraccio”, di Nedda Bonini e Andrea Pavinato)

Andreina, la vostra esperienza qui al Furlo avrà un importante significato anche dal punto di vista umano. È così?

Sì, la nostra è un’esperienza meravigliosa anche dal punto di vista umano: incontriamo e conosciamo tantissime persone. In tutti questi anni sono passati qui da noi più di 500 artisti.
 

E prima del vostro arrivo cosa c’era in questo luogo?

Questo era un villaggio operaio autonomo: c’era la casa degli operai, la casa dell’ingegnere, e tutti avevano delle piccole torri colombaie. Il villaggio era legato alla diga del Furlo: gli operai costruirono prima la diga e poi la centrale idroelettrica. Siamo riusciti a trasformare un villaggio operaio in un villaggio artistico. Come dice Antonio, siamo riusciti a trasformare un’energia impalpabile, che è l’energia elettrica, in un’energia altrettanto impalpabile, che è la fantasia.

(“Il formicaio”, di Enrico Miglio e Santo Nicoletti)

Qui ora c’è spazio anche per la poesia?

Ho un legame forte anche con la poesia. A Roma ho frequentato tantissimi poeti: penso a Vito Riviello, al poeta partigiano Gianni Toti e a Elio Pecora. Quindi, qui al Furlo abbiamo deciso di dare spazio anche alla poesia: abbiamo realizzato nella golena del Furlo due edizioni della Zattera dei poeti. L’anno prossimo potrebbe esserci la terza edizione di questa manifestazione. Facciamo delle processioni poetiche che hanno varie stazioni: ad esempio, ci si ferma nei locali, nei bar e nelle case; il poeta dona una poesia e riceve in cambio qualcosa da mangiare o da bere. Insomma, c’è sempre il baratto che torna.

(Marmitte dei giganti – Fossombrone)

Quali sono i tuoi luoghi del cuore e dell’anima?

Il mio luogo del cuore è Tripoli, dove ho vissuto la mia bella infanzia assolata. Il mio luogo dell’anima è il Furlo.
 

E per te, Antonio?

Per me il Furlo è il luogo del cuore e dell’anima allo stesso tempo. Penso che dovrebbe essere così sempre, perché ogni luogo è il respiro che abbiamo.

E poi la casa di Andreina a Roma: ricordo che la prima volta in cui ci andai, me ne innamorai per l’odore che quel luogo aveva. Era una casa orribile e non aveva le porte. Però c’era un odore meraviglioso. Ritengo che l’olfatto sia il senso più importante e meno esplorato che abbiamo.

E, a proposito di luoghi del cuore e dell’anima, permettimi di chiudere con una cosa a cui teniamo molto: noi siamo sempre stati aperti a valutare l’apertura di una residenza creativa per rifugiati culturali. Vogliamo dire a tutti gli interlocutori che ne hanno le prerogative e che possono avere sensibilità verso questo tema che siamo disponibili a rilanciare un’esperienza pensata qualche anno fa: creare qui da noi un luogo di accoglienza e di incontro per artisti, musicisti, attori, fotografi, registi, intellettuali e dissidenti che sono costretti a lasciare i propri Paesi di origine. Ci piacerebbe davvero molto realizzare questo sogno.

(“Uomo con le ali”, di Antonio Sorace)