(Antonio Muggianu – Foto di Ciro Fronteddu)

Antonio Muggianu, chef dorgalese, e sua moglie Antonella Bartoloni approdano a Cala Gonone con l’avvio di Themari, una nuova esperienza ristorativa all’interno dell’Hotel Nuraghe Arvu. Una cucina dei ricordi con un forte slancio innovativo, piatti di alto livello caratterizzati dalla simbiosi tra contrasti ed armonie e che si distinguono per eleganza e ricercatezza.

 
Ciao Antonio. Nella scelta di diventare chef in che modo hanno inciso gli insegnamenti, la passione, lo studio, la ricerca e la sperimentazione?

Sono stati decisivi tutti gli elementi a cui fai riferimento. Io sono nato e cresciuto dentro un albergo gestito da mio padre. E da bambino giravo in questo mondo strano che era la cucina: pentoloni alti e fumanti, attorno ai quali correvano indaffarati i cuochi e i loro aiutanti. Come può accadere anche in altri ambiti, le mie esperienze d’infanzia all’interno della cucina hanno, in qualche modo, tracciato la mia strada. Da adolescente ho iniziato il mio percorso lavorativo nella cucina di un’altra struttura alberghiera, sempre qui a Cala Gonone. Pian piano, nel corso degli anni si cresceva di partita: ho esordito come lavapiatti, poi sono passato agli antipasti e, successivamente, mi sono occupato di secondi per un po’ di anni per approdare infine alla preparazione dei primi. In seguito, dopo l’adolescenza, ho fatto due esperienze distinte qui all’hotel Nuraghe Arvu con ruoli di maggiore responsabilità all’interno della cucina.
 

Che cos’è per te la cucina?

Io, parallelamente al mio lavoro, ho conseguito la laurea in lettere moderne. Mi ero iscritto all’università per provare ad abbandonare il mondo della ristorazione: è un lavoro che mi ha sempre appassionato ma le rinunce che si devono mettere in conto sono tante. Poi, in realtà, ha prevalso la passione per questo lavoro e devo dire che non riesco a vedermi in un contesto professionale diverso. Per me la cucina è una sorta di luogo di eremitaggio nel quale posso liberare le mie capacità e la mia creatività in ogni fase del mio lavoro: dall’ideazione dei piatti e alla loro preparazione, fino all’impiattamento.
 

Raccontaci dell’esperienza Merula a Dorgali e poi della scelta di dare avvio al progetto Themari a Cala Gonone.

L’esperienza di Merula è iniziata nel 2018. Avevo ricevuto una proposta di lavoro per Cardiff, nel Regno Unito, e mentre ero in agenzia viaggi per fare il biglietto aereo ho ricevuto una telefonata nella quale mi è stato chiesto di gestire il locale. Non ha avuto esitazioni: ho accettato con entusiasmo. Merula era nata come enoteca, io e mia moglie Antonella l’abbiamo traghettata nella transizione a ristorante. Un percorso durato cinque anni.

I piatti apprezzati dai dorgalesi erano quelli riconducibili alla tradizione. Abbiamo cercato di proporre una cucina che integrasse l’offerta ristorativa: pian piano siamo riusciti a sdoganare i crudi e a far apprezzare gli abbinamenti un po’ bizzarri e innovativi. Abbiamo ottenuto subito grandi soddisfazioni, riscontrando un entusiastico gradimento da parte dei nostri clienti per gli antipasti, per i primi e per i secondi. Per i dolci il discorso è stato un po’ diverso: un nostro cliente storico ci riconosceva l’alta qualità della nostra cucina ma ci diceva che i nostri dolci erano troppo distanti, per qualità e innovazione, da tutti gli altri piatti. Confesso che queste critiche mi dispiacevano ma erano decisamente costruttive e condivisibili. La cucina è guidata molto dall’ispirazione e dalla creatività, la pasticceria, invece, ha un rapporto privilegiato con la chimica e la precisione. Allora, durante il lockdown di inizio 2020, ho colto l’occasione per mettermi a studiare e sperimentare: mi sono esercitato moltissimo e posso dire che in pochi mesi siamo riusciti ad allineare la qualità dei dolci al resto del menu e a pensarli con un nuovo slancio.

Poi, da quest’anno ha avuto inizio l’esperienza Themari, all’interno dell’Hotel Nuraghe Arvu a Cala Gonone. Il locale è bellissimo, la cucina grandissima e funzionale. Per non parlare della bellezza del luogo e della vista di cui si può godere.
 

Da dove nasce il nome “Themari”?

Sono stati decisivi il fatto che ho studiato il greco durante il mio percorso di studi universitari e che il profumo che più adoro è quello del timo. Qui la natura trionfa ed entra  fin dentro il locale: si sente il profumo del ginepro, del timo e delle piante tipiche della macchia mediterranea.

Themari è un neologismo che nasce dalla parola “timo”, che in greco si scrive thimari. Volevamo un nome che fosse distintivo e in cui fosse condensato anche il messaggio che la nostra cucina è posizionata tra terra e mare e, quindi, thimari è diventato Themari. Nel logo, al centro del nome che abbiamo scelto, c’è, incorniciata, la lettera “M”, che è l’iniziale del mio cognome nonché la lettera con cui inizia Merula: una sorta di passaggio del testimone tra passato e futuro.
 

La vostra proposta si distingue per la grande ricercatezza, per la simbiosi tra contrasti ed armonie: qual è la tua idea di cucina?

La mia cucina è fondata sulla semplicità e sui ricordi. È una cucina che non stravolge ma che accarezza. Da parte mia c’è grande rispetto della materia prima, che dev’essere necessariamente di ottima qualità. Scelgo personalmente tutti i prodotti che vanno a costituire gli ingredienti dei miei piatti. Cerco di privilegiare i prodotti del territorio, a patto che garantiscano standard che tendono all’eccellenza. Dorgali la fa da padrone: ad esempio, il nostro gambero rosso è eccezionale, così come lo sono la carne di pecora, i formaggi, la ricotta salata e le verdure.

Il nostro è un menu dinamico, non è più pensabile mantenerlo invariato per lunghi periodi. Cerco di dare spazio anche alle contaminazioni e alla sperimentazione; se mi imbatto in un ingrediente che non conosco, dentro di me si innesca una sfida e mi dico che devo studiarlo fino a farlo diventare protagonista di un mio piatto.
 

Ci sono tecniche e prodotti tipici di altre regioni o di altre culture che ti hanno conquistato e che utilizzi per costruire i tuoi piatti?

Tutto nasce da una mia adorazione per Antonino Cannavacciuolo, antecedente al suo approdo in televisione. A casa ho tutti i suoi libri. Io e Antonella siamo stati a Villa Crespi, l’abbiamo conosciuto. Quindi, certamente tra le tradizioni culinarie di altre regioni quella che mi ispira maggiormente è quella campana. Ho sposato a pieno la filosofia di Cannavacciuolo, i cui pilastri sono il rispetto della materia prima, toccandola il meno possibile e cercando di valorizzarla, il puntare su una cucina semplice, su abbinamenti che esaltino i contrasti, su un’attenta cura dell’impiattamento e dei giochi cromatici. Tutti questi fattori messi assieme devono dare dei piatti che non siano eccessivamente elaborati.

Poi, devo dire che anche la cucina romana è un riferimento saldo della mia cucina.

Ma anche la cucina orientale è fonte di ispirazione, in particolar modo quella giapponese. Gli elementi che la caratterizzano sono rispetto, pulizia, tecnica e precisione; ho imparato molto da questa tradizione. Ad esempio, è interessante l’utilizzo della salsa di soia che, se gestita con equilibrio, riesce a conferire ai piatti una sapidità aromatica che è al tempo stesso rispettosa degli ingredienti.
 

Quali sono i criteri che ti guidano nella selezione delle materie prime?

I nostri fornitori coincidono, spesso, con realtà aziendali molto piccole. Operano per lo più qui nella zona di Dorgali e nei comuni limitrofi ma ne abbiamo diversi anche in altre aree della Sardegna. Li selezioniamo in funzione della qualità dei loro prodotti e dei valori che sottendono la loro attività, non trascurando la loro storia.

Ne cito uno su tutti: il mulino Su Ghimisone di Oliena. È un’azienda che coltiva grani antichi sardi e che, oltre alle farine, ci fornisce le lisangias e la fregola. Nei piatti che preparo con questi prodotti, il profumo del grano si avverte distintamente e si integra con quello degli altri ingredienti esaltandoli; è una sensazione che difficilmente si prova con le paste “moderne”. Sono prodotti eccezionali che hanno in dote un arco aromatico che mi riporta ai profumi intensi e caratteristici che sentivo da bambino quando si cuoceva la pasta.
 

Nel vostro menù quali sono i piatti che più ti rappresentano e quali sono quelli per te più evocativi?

I piatti che più rappresentano la mia filosofia sono due. Innanzitutto, i tortelli ripieni di crema di melanzane; la pasta è tirata da noi, fatta con la farina di Oliena e le uova di Dorgali, e il ripieno è realizzato con le melanzane e la menta di casa mia. I tortelli vengono saltati poi con un burro acido e polvere di limone nero fermentato; quest’ultimo ingrediente simboleggia il mio approccio alla cucina: era a me completamente sconosciuto ma l’ho studiato e, con intuizioni e sperimentazioni ardite, è diventato un elemento imprescindibile di alcune mie ricette.

L’altro è la fregola, fatta con la guancia di manzo preparata con una cottura lunghissima. Viene infine mantecata con burro e formaggio sardo Granglona.

I piatti a cui sono legati i ricordi sono tantissimi. Se proprio devo sceglierne alcuni, parto con la salsa di pomodoro. Mi ricorda mia nonna paterna, Maria Antonia, nota anche come Laedda: nella sua piccola cucina c’era sempre una pentola che conteneva salsa di pomodoro che si evolveva con cotture prolungate e a fuoco lento; ancora oggi le mie papille gustative ed il mio olfatto ne ricordano il sapore meraviglioso e il profumo avvolgente, così come non posso dimenticare il suono del “pippiare”, del sobbollire, che ne accompagnava la preparazione. Ulteriori tratti distintivi erano la presenza di una solitaria foglia di alloro e il colore arancione intenso.

Poi, c’è un piatto che fa parte delle nostre proposte che è per me decisamente evocativo: i culurgiones saltati in padella con un ragù di pecora, rigorosamente dorgalese, e finiti con una crema di pecorino, un Fiore Sardo che mi ricorda mio nonno materno perché onnipresente all’interno del frigo di casa sua.

(Risotto con crema di cime di rapa, frutti di mare, burrata e pomodorini confit – foto di Ciro Fronteddu)

Alcuni tuoi piatti riconducono la mente all’espressionismo astratto e all’action painting. Quanta attenzione dedichi agli aspetti cromatici delle tue proposte?

La mia cucina è decisamente colorata. I miei colori sono le verdure. I piatti che creo, in genere, nascono da un’idea cromatica.

L’ispirazione nasce da quadri che mi hanno colpito. Ad esempio, per il gambero rosso in tre consistenze la suggestione me l’hanno fornita i quadri di Monet e il puntinismo. È fondamentale che i piatti colpiscano anche dal punto di vista estetico, i colori e le forme sono propedeutici ad un impiattamento che risulti elegante ed invitante.

C’è anche un altro piatto a cui tengo molto e che risponde a questi concetti: si tratta di un risotto, fatto con riso sardo stagionato 24 mesi, che viene cotto con l’acqua di cottura delle vongole e che viene poi mantecato con del burro acido e con una crema di cime di rapa. Viene completato con la burrata, i frutti di mare e con pomodorini confit. È un risotto italiano: i colori prevalenti sono il verde, il bianco e il rosso.

(Gambero rosso in tre consistenze)

Raccontaci la tua versione di alcuni capisaldi della cucina sarda.

Un piatto del nostro menu al quale sono molto legato è l’uovo frattau. La mia è una reinterpretazione del tradizionale pane frattau, con la quale scelgo di dare centralità all’uovo, che da complemento diventa elemento protagonista di un piatto tipico della cucina storica sarda. In sintesi, si tratta di un uovo dal cuore fluido che va ad irrorare delle sfogliette croccanti di pane carasau.

Poi c’è l’agnello, che a parer mio deve essere cotto poco oppure molto, non ci sono vie di mezzo. Nella nostra tradizione alla carne di agnello sono state riservate sempre cotture lunghe. A me, invece, piace prendere spunto dalla scuola francese e puntare su cotture a bassa temperatura; poi, solo nella parte finale, punto su una fiamma molto decisa per conferire croccantezza, quasi a richiamare l’effetto del fuoco con cui prepariamo tradizionalmente le carni qui in Sardegna.

(Uovo frattau – foto di Ciro Fronteddu)

Quanto ritieni sia importante la gestione della sala, l’accoglienza del cliente e il racconto dei piatti?

La gestione della sala qui a Themari è appannaggio di mia moglie Antonella. Il primo impatto che il cliente ha con il ristorante è quello con la sala. L’accoglienza è fondamentale e può valorizzare o compromettere il lavoro che si fa in cucina. Oggi gli addetti alla sala sono ambasciatori delle tipicità enogastronomiche di un territorio e dei piatti dello chef, che sono frutto di idee, sperimentazioni, studio e cura dei dettagli: bisogna saper raccontare tutto questo con grande competenza e passione, anche perché chi frequenta oggi i ristoranti ha una maggiore consapevolezza della qualità dei prodotti e una curiosità spiccata verso il territorio e il suo patrimonio culinario. È importante, inoltre, avere empatia e grande attenzione nei confronti dei clienti, bisogna intercettarne le esigenze e capire come farli stare il più possibile a proprio agio. Devo dire che, anche per i riscontri che riceviamo, Antonella possiede tutte queste caratteristiche e fa un eccellente lavoro. Stessa cosa posso dire per le persone che collaborano con lei.

(Antonella Bartoloni – foto di Ciro Fronteddu)

Parlaci della vostra carta dei vini.

Anche della carta dei vini si occupa Antonella e lo fa con grande passione e scrupolosità. Abbiamo una grande attenzione verso il territorio di Dorgali: nel panorama dei produttori locali possiamo trovare, partendo dal modello cooperativo vitivinicolo fino ad arrivare alle aziende familiari, delle realtà che garantiscono vini di altissima qualità. Tra i vitigni che danno vita alle etichette della nostra carta ci sono certamente il Cannonau e il Vermentino, molto apprezzati dai nostri clienti, ma puntiamo tantissimo anche sul Panzale, un’uva interessantissima che ha un legame esclusivo con Dorgali e che si sta guadagnando sempre più grande considerazione da parte degli esperti e degli appassionati di vino.
 

Quali sono le meraviglie e le criticità legate alla tua professione?

È un lavoro strepitoso. Dietro al conseguimento della mia laurea c’era l’obiettivo di abbandonare questa professione; si, perché comporta tante rinunce, tutti i periodi di festa e relax delle persone sono per noi chef quelli più impegnativi. Ciò comporta il sacrificare, almeno in parte, il tempo dedicato alle relazioni. Però ho una passione fortissima per la cucina: è il mio regno, la mia bolla, la mia cupola; questo mi ha dato l’entusiasmo per scegliere di continuare a fare lo chef.
 

Quali sono le persone che sono state e sono per te un solido riferimento e verso le quali provi gratitudine?

Sicuramente mia moglie Antonella è stata ed è importantissima, è una parte di me. Abbiamo fatto tantissime cose assieme e continuiamo a farlo: mi dona una spinta e un sostegno costanti e tra di noi c’è una forte complicità.

Poi i miei genitori: sono stati un esempio costante. Ho assorbito molti aspetti dei loro caratteri. Mio padre è sempre stato una persona eclettica: chef, pittore, scultore. Ha una vena artistica molto sviluppata. E poi è una persona retta e determinata. Mia madre, invece, è una persona rigorosamente ordinata. Da lei ho acquisito la mia ossessione per l’ordine, soprattutto in cucina, dove ritengo che sia imprescindibile.
 

Il territorio dorgalese è ricco di perle e meraviglie dalla bellezza mozzafiato: quali sono i tuoi luoghi del cuore?

Tra i miei posti del cuore ci metto sicuramente Nuoro, anche perché la mia famiglia materna è nuorese, così come lo è Antonella.

E poi c’è Themari, qui all’interno dell’hotel Nuraghe Arvu. Lo vivo come una terra di mezzo. C’è un passo in Cosima di Grazia Deledda – libro su cui ho dato la mia tesi di laurea – nel quale la protagonista è seduta sul limite del cancello di casa sua e dice che quello è il confine tra il mondo familiare e quello esterno. Io rivivo le sensazioni di Cosima qui a Themari: Nuraghe Arvu è un posto che ti dà pace e tranquillità, c’è una bellissima luce, e la sento come un’enclave all’interno della quale sto molto bene e realizzo la mia professione con grande soddisfazione.
 

E i tuoi luoghi dell’anima?

Il mio posto dell’anima è la mia campagna; si trova ad Iriai, una zona di Dorgali, e si affaccia sul Cedrino. C’è una visuale meravigliosa con uno strapiombo sul lago e abbiamo una casetta con il caminetto. Quando devo ricaricarmi vado lì, e funziona sempre.

E poi c’è la nostra casa, mia e di Antonella, a Dorgali. Come puoi immaginare, ha una cucina molto grande.