Sébastien Flochon è un calciatore professionista nato a Lione nel 1993. Nel 2018 con il Les Herbiers, squadra di terza divisione di un piccolo comune della Regione della Loira, ha raggiunto la finale di Coppa di Francia affrontando il blasonato PSG. Qualche attimo dopo quell’epica partita di calcio, Sébastien durante un’intervista alla stampa italiana sente il bisogno di ricordare suo nonno Antonio Chironi, originario di Orani, in provincia di Nuoro, e di dedicare quell’importante traguardo ai suoi parenti in Sardegna.
 

Ciao Sébastien. I tuoi primi calci al pallone li hai dati a Lione, dove sei nato. Chi ti ha avvicinato al mondo del calcio?

È stato mio padre Christian ad avvicinarmi al mondo del calcio. È successo nel 1998, subito dopo il mondiale vinto dalla Francia battendo in finale il Brasile per 3 a 0. L’entusiasmo che ne è derivato ha influito sulla mia scelta e ho iniziato a giocare a cinque anni in una piccola squadra di un quartiere di Lione.
 

Quando hai fatto il tuo ingresso nel calcio professionistico?

La mia formazione calcistica è avvenuta tutta all’Olympique Lyonnais ed è durata fino ai miei venti anni d’età. Purtroppo, non ho firmato un contratto professionistico a Lione e questo è stato un mio rammarico.

Ho cominciato la mia carriera da calciatore professionista nella città di Le Havre, in Ligue 2, nel club più antico di Francia. Qui sono rimasto due anni. Poi sono passato in terza divisione e ho giocato a Bastia. Devo confessare che in Corsica mi sono trovato molto bene, probabilmente anche grazie al fatto che i corsi sono molto vicini ai sardi dal punto di vista culturale.

Poi sono passato al Les Herbiers. Dopo questa splendida esperienza, sono approdato allo Chambly, a nord di Parigi, ottenendo la promozione in Ligue 2.

Oggi gioco a Boulogne-sur-Mer, in quarta divisione. Sono venuto qui perché il club ha una storia importante ­— in passato ha giocato in Ligue 1 — e ha l’ambizione di tornare ad alti livelli; ho deciso di scendere di categoria perché sono stato conquistato dal progetto della società.
 

Nel 2018 giocavi nel Les Herbiers, che all’epoca militava nel campionato di terza divisione francese. Accadde l’improbabile: dopo un cammino trionfale, caratterizzato da nove vittorie, raggiungete la finale di Coppa di Francia nella quale l’otto maggio affrontate il Paris Saint Germain.

È stato certamente un momento speciale perché giocare allo stade de France davanti a 90.000 spettatori e con i miei familiari sugli spalti è stata un’emozione unica. Poi, siccome io ero il capitano del Les Herbiers, ho avuto anche l’onore e il piacere di presentare al presidente Macron ogni mio compagno di squadra. E anche ascoltare la Marsigliese cantata da tutto lo stadio è stato meraviglioso.

Forse, però, oggi ancor di più mi rendo conto a pieno dell’eccezionalità dell’esperienza che ho vissuto; sì, perché cinque anni fa durante l’evento ero sotto un rullo compressore, talmente erano potenti le sensazioni che stavo provando.
 

Cosa ha significato raggiungere un traguardo del genere e sfidare allo stade de France di Parigi il club guidato da Unai Emery e che aveva tra le sue fila fuoriclasse come Cavani, Mbappé e Thiago Silva?

Devo dire che, nonostante la straordinarietà dell’evento, non ho vissuto la partita con timore reverenziale nei confronti del PSG. Anzi, ci tenevo a dimostrare che potevamo giocarci le nostre carte e che il mio livello di calciatore fosse all’altezza di quel palcoscenico e di quell’avversario.

È stata un’opportunità per toccare con mano l’altissimo livello del calcio giocato da campioni affermati come Cavani, Mbappé, Thiago Silva, Thiago Motta, Dani Alves e Marquinhos, solo per citarne alcuni. Avevo già giocato contro squadre di Ligue 1 in Coppa di Francia ma affrontare questi fuoriclasse mi ha consentito di confrontarmi con una velocità di gioco e con qualità tecniche impressionanti.

Ad esempio, Mbappè, che nel 2018 era ancora una giovane stella del calcio, faceva già gli stessi numeri che gli vediamo fare oggi. Ma per noi non è bastato sapere in anticipo come lui ci avrebbe dribblato; sì, perché lo faceva con una velocità tale che non riuscivamo a contenerlo comunque.

(Tifosi del Les Herbiers allo stade de France durante la finale di Coppa di Francia del 2018)

 
Che effetto ti ha fatto vedere allo stadio 15.000 vostri tifosi, praticamente tutti gli abitanti di Les Herbiers?

È stata un’emozione potente. Questo aspetto mi è rimasto impresso nella mente più della partita in sé. Anche ascoltare il sostegno dei tifosi mi ha fatto sentire i brividi. Il tifo era così fragoroso che tra compagni non riuscivamo a sentirci quando ci parlavamo. Questa condizione ti impone di sopperire utilizzando un linguaggio del corpo più efficace e di aguzzare l’intuito.
 

Al primo minuto di gioco la prima occasione da gol è la tua.

Mio padre mi ha parlato spesso di quell’occasione che ho avuto. E ogni tanto ci penso anche io. In quel momento è servita a convincerci ulteriormente del fatto che meritavamo di essere arrivati in finale e che potevamo giocarcela.

Oggi mi dico che, forse, avrei dovuto dribblare Thiago Motta facendo finta di tirare col destro e portarmi invece il pallone sul piede sinistro e poi calciare.

Ma si sa che col senno di poi è tutto più facile.
 

Il Les Herbiers non sfigura affatto e tu sei stato tra i migliori in campo. Ma il risultato finale è stato di 2 a 0 a favore del PSG con reti di Lo Celso e Cavani. Che partita è stata?

La partita è stata equilibrata nel risultato. Abbiamo giocato con coraggio e fiducia, con spirito di gruppo e con compattezza. Non abbiamo avuto paura di gestire la palla.

Però devo riconoscere che tra noi e il PSG c’era una notevole differenza di ritmo e di tasso tecnico. Basti pensare al possesso palla che è stato in mano al PSG per quasi il 70% del tempo della partita.

Nella mia zona di campo io dovevo affrontare Rabiot: è stato molto impegnativo ma è stata un’esperienza utile e che mi ha permesso di crescere ulteriormente come calciatore.

Alla fine del primo tempo eravamo sotto per 1 a 0 e durante l’intervallo, in qualità di capitano, ho cercato di caricare i miei compagni perché credevo ancora alla vittoria. Non si sa mai in un incontro di calcio: gli episodi avrebbero potuto riaprire la partita e noi avevamo il dovere di credere nell’impresa.
 

Al momento della premiazione prende corpo una scena molto bella: Thiago Silva, capitano del PSG, ti chiede di sollevare assieme la coppa. Che emozioni hai provato?

Il PSG mi ha invitato ad andare sul palco assieme a Thiago Silva. A dire il vero, io inizialmente ho esitato perché ero amareggiato per la sconfitta; non mi sembrava giusto sollevare una coppa che non avevamo vinto. Il mio allenatore, Stéphane Masala, anche lui sardo d’origine, mi ha spinto ad andare dicendomi le seguenti parole: «Séb, devi andare. È un ricordo che ti rimarrà per tutta la vita e, simbolicamente, è una cosa molto bella che tu e Thiago Silva solleviate assieme la coppa». Quando riguardo il filmato della premiazione mi colpisce il fatto che non ero particolarmente sorridente, proprio per le sensazioni ambivalenti che provavo dentro di me. Poi, sul podio ho avuto anche il piacere di incontrare Marco Verratti e abbiamo avuto modo di parlare in italiano. Lui è stato molto gentile e mi ha dato la sua maglia, così come ha fatto anche Mbappé.
 

Come spesso accade nella vita, le vittorie possono alternarsi con le sconfitte; dopo appena qualche giorno da quella mitica finale, le cose in campionato vanno in una direzione decisamente diversa: il Les Herbiers retrocede in quarta divisione. Come sei riuscito a spiegarti questo paradosso?

È stata la peggior sensazione che ho vissuto nella mia carriera. La retrocessione è avvenuta dopo appena tre giorni dalla disputa della finale di Coppa di Francia. Ricordo che dopo l’incontro di Parigi siamo tornati a Les Herbiers in pullman con un viaggio di sette ore.

In classifica c’erano dieci squadre nell’arco di tre punti e si contendevano la permanenza in terza divisione. Nelle partite decisive per la lotta per non retrocedere si è verificata una serie di risultati a noi sfavorevoli e, peraltro, non così probabili.

Abbiamo giocato la finale il martedì alle 21:00 e la partita che ci ha fatto andare in quarta divisione l’abbiamo disputata il venerdì alle 18:00; neanche tre giorni di riposo: non abbiamo avuto la possibilità di recuperare le energie psicofisiche che avevamo speso per un evento così eccezionale. Ricordo che avevo chiesto al mio presidente di provare ad ottenere lo slittamento della partita al sabato ma non vi è stato seguito alla mia richiesta.
 

Tra le tante, la cosa che mi ha colpito di più della tua storia è che, pochi minuti dopo la finale, durante un’intervista che hai rilasciato alla stampa sportiva hai voluto ricordare tuo nonno Antonio e l’amore che ti ha trasmesso per la Sardegna. Qual era il legame che avevi con lui?

L’intervista era con il giornalista Simone Rovera. Oggi siamo diventati amici. Lui sapeva che avevo origini italiane, così come Thiago Motta e Verratti tra le fila del PSG, e con le domande ha fatto un focus su questo filo comune. Quindi, per me è stato normale parlare di mio nonno. Sapevo poi che in Sardegna tutti i parenti avevano seguito la partita. Ero molto contento e fiero di poter dedicare a loro e a mio nonno un traguardo così importante per la mia carriera.

Con mio nonno avevo un legame molto profondo; da bambino passavo molto tempo a casa dei miei nonni. I miei primi ricordi sono legati alla cucina italiana e a quella sarda. Sul tavolo c’erano sempre il pane carasau e il pecorino sardo. Poi, da loro si guardava la TV italiana. Dunque, anche se ero in Francia, per certi versi mi trovavo in una bolla italiana fatta di cucina e televisione; ma non per quel che concerneva la lingua italiana o sarda: i miei nonni parlavano in francese con noi nipoti. E anche a scuola non ho mai studiato l’italiano.
 

E come hai fatto ad impararlo così bene?

Secondo me con la volontà, con l’amore e i geni. Poi, a diciassette anni si è sviluppato in me il bisogno e il desiderio di sapere di più sulle mie origini. E siccome mio nonno non assecondava a pieno questa mia sete di scoperta, ho deciso di fare lezioni private di italiano per tre mesi con un insegnante madrelingua e a Natale del 2010 sono partito da solo per la Sardegna, avendo così la possibilità di conoscere finalmente i miei parenti sardi. È stata una sensazione bellissima: non ero mai stato in Sardegna ma ho percepito istantaneamente di essere parte della famiglia. Mi hanno accolto con amore e mi hanno trasmesso tanto.

La scorsa estate sono tornato ad Orani e ho potuto portare per la prima volta in Sardegna il mio primo figlio, Charles. Sono stato felicissimo di questa cosa.

Purtroppo, non so parlare il sardo ma, in compenso, so contare in sardo per giocare a sa murra.
 

Cosa ha fatto tuo nonno per far sì che tra te e la Sardegna si creasse un legame speciale?

I miei primi ricordi mi conducono ai racconti che mio nonno mi faceva della Sardegna. Mi parlava della natura meravigliosa e dei paesaggi mozzafiato. Lui da piccolo aveva fatto il pastore e poteva capitare che dormisse in campagna con il gregge anche per più giorni. Queste esperienze lo avevano segnato ma gli avevano concesso la possibilità di conoscere la natura in modo molto ravvicinato e di immagazzinare informazioni, dettagli, profumi e coordinate dell’intero territorio oranese. Quindi, sin da piccolo mio nonno ha potuto instaurare un rapporto speciale con la natura e quando me lo raccontava era pervaso dalla fierezza e dall’emozione.

Mi parlava spesso del legame che aveva con le sue sorelle. Lui era l’unico fratello maschio e aveva uno spiccato senso di protezione verso di loro.

Un’altra cosa che mi ha trasmesso mio nonno è il forte orgoglio di sentirsi sardo.

A volte ho l’impressione di sentirmi culturalmente più vicino ai sardi che ai francesi. Credo che ciò possa dipendere anche dal fascino che hanno esercitato su di me i racconti che mio nonno mi faceva della Sardegna, dei legami familiari, delle forti relazioni sociali e della solidarietà praticata all’interno della comunità.

Lui aveva deciso di emigrare in Francia per ambire ad una vita più confortevole ma credo che la Sardegna gli mancasse infinitamente.
 

Ti ha mai parlato di quello che aveva rappresentato per lui la scelta di emigrare in Francia?

Mio nonno non toccava mai questo argomento con me. Non si lamentava mai di nulla. Mia madre ha cercato di spiegarmi che in realtà le difficoltà c’erano state, come capita spesso a chi decide di emigrare. Ma mio nonno era un uomo forte e con un alto senso della dignità. Faceva un lavoro duro, era piastrellista. Ma non ha mai fatto cenno alla stanchezza. Si distingueva per un’apparente durezza che, probabilmente, è più corretto ricondurre alla forza e alla solidità. Ha cercato sempre di trasmettermi il senso del dovere.
 

Che cosa rappresenta per te la Sardegna?

La Sardegna è la mia seconda casa, è la mia famiglia. Fino a qualche anno fa può darsi che io cercassi di far rivivere mio nonno attraverso il mio legame con i parenti; oggi sono certo che non è più così. Porto la Sardegna sempre con me, nel mio cuore. E sono fiero di questo sentimento profondo.

(Sébastien Flochon con la maschera de Su Bundu nel 2010)

 
E se dovessi scegliere un simbolo del tuo legame con la Sardegna, quale sarebbe?

Sicuramente Su Bundu, la maschera tipica di Orani. Pensa che da ragazzo volevo persino farmi un tatuaggio sul polpaccio come simbolo del mio orgoglio sardo.
 

Torniamo per un attimo a parlare di calcio. Durante la finale Italia-Francia ai mondiali del 2006 come si è diviso il tuo cuore?

Nel 2006 ero un ragazzino. Il mio cuore era diviso a metà. A casa avevamo sia la bandiera dell’Italia sia quella della Francia.

Devo ammettere che poi, nel tempo, il mio legame con l’Italia è cresciuto progressivamente.

Oggi faccio parte della squadra Diaspora. È un’idea di un amico artista, Paolo Del Vecchio. Ha voluto creare una squadra di calcio che desse rappresentanza a tutta la diaspora italiana. In formazione ci sono prevalentemente francesi italiani e belgi italiani. L’obiettivo che vogliamo raggiungere è quello di valorizzare sempre più il nostro legame con la storia e la cultura italiana. Disputiamo partite di beneficenza. A novembre scorso la squadra ha giocato allo stadio di Venezia.
 

E qual è il tuo rapporto con il calcio italiano?

Ho sempre seguito con grande interesse e affetto il calcio italiano; un altro mio rammarico è quello di non essere riuscito a giocare in Italia. Dopo la finale col PSG avevo firmato un contratto di due anni con procuratori italiani, i fratelli Bonetto per la precisione. Ma, purtroppo, non si è presentata l’opportunità per riuscire a realizzare il mio sogno. Il calcio italiano è più tattico ed è attraversato da più passione rispetto agli altri campionati europei. Ad esempio, in Francia per definire il ruolo di un calciatore che opera a metà campo si usa esclusivamente il termine “centrocampista”; in Italia c’è maggior dettaglio nella definizione del profilo: puoi essere un “regista”, un “trequartista”, una “mezzala” o un “mediano”.
 

Ti cito quattro grandi calciatori: Juninho Pernambucano, Daniele De Rossi, Andrea Pirlo e Samuel Umtiti. Qual è il nesso che hai con loro?

Io e Umtiti siamo cresciuti insieme. È stato mio amico e compagno di squadra nelle giovanili del Lione.

Juninho è stato il mio mito quando da piccolo andavo allo stadio con mio padre per veder giocare il Lione. Ho avuto il privilegio di assistere dal vivo, sul campo e dagli spalti, ai suoi epici calci di punizione.

De Rossi è stato sempre un mio riferimento: mi sono ispirato a lui per le sue capacità tecniche ma anche per la personalità e la grinta che aveva in campo.

Ho sempre adorato Pirlo. Secondo me, come pochi, ha incarnato la bellezza, l’eleganza e l’essenza del calcio.

Poi ho apprezzato molto Thiago Motta e, da qualche anno, mi piace molto Marco Verratti.

(Santuario N.S. di Gonare – Foto di Max.Oppo, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons – https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/9/94/Monte_Gonare_-_N.S._%27e_Gonare.jpg)

 
Chiudiamo tornando a te e a tuo nonno: qual era il suo luogo del cuore?

Posso dire con certezza che il luogo del cuore di mio nonno era il Monte Gonare, una delle vette più suggestive della Sardegna e che insiste sul territorio di Orani e Sarule. Lì, in alto, c’è una bellissima chiesa che si può raggiungere solo a piedi. Da lassù, nelle giornate serene, si possono vedere contemporaneamente il mare del golfo di Orosei e e quello della costa occidentale dell’isola.
 

E il tuo?

In Francia, per la precisione a Lione, la basilica di Notre Dame de Fourvière. Da lì si può osservare l’intero panorama della città. Ogni volta che torno a Lione sento il bisogno di andarci e accendere una candela come pensiero per i miei nonni e per tutte le altre persone a me care che non ci sono più.

In Sardegna, sicuramente il Monte Gonare. Nei momenti particolari, quando ho bisogno di ritrovare forza e armonia, mi basta pensare a Gonare e visualizzarlo: mi infonde molta tranquillità.
 

Se tu potessi parlargli, cosa diresti oggi a tuo nonno?

Gli direi che penso spesso a lui e a mia nonna e che gli sono grato di avermi trasmesso un approccio positivo alla vita. Loro vivono dentro di me e mi aiutano nel quotidiano.
 

Grazie Sébastien.
 

(Sébastien Flochon con i suoi nonni, Antonio e Vincenza)