Erri De Luca è scrittore, poeta, giornalista e traduttore. È “speleologo” e “alpinista” della parola, il suo linguaggio è nerbo e poesia. Indaga e racconta le emozioni fino al nucleo.

Ciao Erri. Per comprendere ciò che siamo, spesso, dobbiamo guardare alla nostra fanciullezza e alle nostre origini: com’è stata la tua infanzia a Napoli? Quali sono i ricordi e le emozioni che ti porti dentro?

L’infanzia è leggendaria per ognuno. La mia è stata napoletana, visitata da fantasmi benevoli e ostili, imbottita di libri dei miei genitori perché dormivo nella stanza degli scaffali pieni. Per tre mesi di estate fu benedetta e selvatica sull’isola d’Ischia. Fu privilegiata: intorno i coetanei lavoravano da bambini, morivano della più alta mortalità infantile di Europa, senza cure mediche, scuola, scarpe.
 

Il dialetto, l’accento e la cadenza sono tra gli elementi più tangibili del legame inscindibile che abbiamo con le nostre radici. Quanto è importante per te sentire i suoni del napoletano e quali sono le sue parole che ritieni espressivamente più potenti e che ti suscitano meraviglia?

Mi parlo, mi incoraggio, litigo con me stesso in napoletano. Da due anni scrivo e commento una parola del dialetto per la domenica del Corriere del Mezzogiorno, costituendo così un mio vocabolario personale delle parole che hanno avuto presa, effetto su di me. È la mia lingua madre. L’italiano è venuto dopo e lo distinguo nettamente per l’uso che ne faccio. La vita mi succede in napoletano, poi la passo al setaccio del racconto in italiano.
 

Il patrimonio culturale di Napoli è vastissimo: musica, teatro, storia, monumenti, arte e tradizione popolare. Quali sono le figure che lo hanno rappresentato in modo più alto?

Eduardo De Filippo, Totò e prima di loro i poeti Salvatore Di Giacomo e gli altri che hanno scritto per musicisti costituendo il corpo della canzone napoletana.
 

E i simboli e le peculiarità dei napoletani che meglio li caratterizzano?

Capacità di adattamento, di superamento delle avversità, un sistema nervoso accordato un’ottava sopra rispetto alle altre città, pronto a reagire alle circostanze intorno. Il napoletano non si fa prendere di sorpresa.
 

In Spizzichi e bocconi hai scritto che il cibo è stato trattato con devozione da ogni popolo; i napoletani lo hanno fatto e lo fanno con una passione unica. Quali sono le pietanze della tradizione culinaria della tua città che più solleticano i tuoi sensi e la tua memoria?

La parmigiana di melanzane è stata la pietanza condivisa con mia madre negli anni in cui ha abitato con me. Dopo la sua morte l’ho bandita dalla tavola. Resta nella mucosa del naso, nelle papille traccia del ragù di mia nonna nelle domeniche d’infanzia. Poi la pastiera è l’unica fetta che supera la mia indifferenza ai dolciumi.
 

Il cibo può essere anche uno straordinario catalizzatore dell’aggregazione tra le persone. Sei d’accordo?

Il cibo mette a tavola i popoli, il kebab, il sushi, il couscous: il cibo del mondo avvicina popoli e culture. È la prima forma di accoglienza. La pietanza venuta da lontano trova posto e cittadinanza, come il pomodoro, il cacao, il caffè, la patata.
 

Hai scritto meravigliosamente anche di vino: in A nessun altro vino furioso ho più chiesto l’avvenire, raccontando di una bottiglia di Per’ e Palummo, hai dimostrato che è possibile approcciare alla degustazione anche in chiave poetica ed emozionale. Hai scritto anche che “oggi ne bevi sorsi col desiderio di ottenere la grazia di un ricordo”: quali sono le sensazioni, i momenti o le persone che vorresti ti rievocasse un buon calice di vino?

Sulla parete della mia cucina sono incollate etichette di vini bevuti alla tavola. Non formano album di ricordi, ma riassumono geografie, sono un atlante. L’ultima etichetta incollata è di un vino preso in Ucraina nel viaggio di gennaio, dopo lo scarico del furgone in una scuola alloggio di profughi. Alcuni vini ricordano le persone sedute alla tavola, ora assenti. Ho smesso di bere da solo. Non ho bevuto per dimenticare, perché dimentico quasi tutto.
 

In Non ora, non qui hai dato voce alla nostalgia e alla necessità di ricordare, di indagare a ritroso. La memoria è fondamentale per raccontare agli altri e a noi stessi ciò che siamo e le probabili ragioni per le quali lo siamo diventati. È così?

È strano ma sono privo del sentimento della nostalgia. Non ho desiderio di tornare in nessuna stazione precedente. La memoria per me non è un archivio che posso consultare, invece è un buco nero dal quale ogni tanto affiora un frammento e allora per farlo durare lo scrivo. Così intorno a quel frammento ricostituisco l’insieme del tempo, delle persone, dei luoghi.
 

Riprendiamo a parlare di luoghi. È nota la tua passione per la montagna e per l’alpinismo. Cosa significano per te?

Vado in montagna per allontanarmi. Mi procuro una distanza dal punto di partenza e mi inoltro in un territorio privo di presenza umana, dove ciò che circonda è immenso e la mia taglia minima. Mi fa bene recuperare questa misura di particella dispersa, insignificante, senza invito e lasciapassare. In cima non sono vicino a niente, sono invece nel punto di massima lontananza, oltre il quale senza ali non posso proseguire. Così da bipede inverto la marcia e riaggomitolo il filo dipanato in salita. È un esercizio che ottiene la migliore manutenzione del mio corpo invecchiato.
 

Lasciare il proprio luogo di origine non è mai semplice: l’emigrazione è mossa da un sentimento di speranza ma significa anche lacerazione, sradica e attribuisce permanentemente lo status di ospite. Cosa ne pensi?

Per me a diciott’anni fu un’amputazione. Mi staccavo mutilandomi l’origine, non volevo più appartenere a un luogo, a una famiglia, a un futuro apparecchiato. Ho conosciuto molti vuoti sotto i piedi scalando, ma resta abissale nello stomaco il vuoto del primo gradino sceso chiudendomi alle spalle la porta della casa abitata fino a quell’età. Mi riguardano le migrazioni contemporanee. Non vengono da spirito di avventura, come fu la mia. Vengono da disperazioni e sono perciò inarrestabili.