Laboratorio La Robbia
Qual è oggi il valore che sappiamo dare ad un capo di abbigliamento o ad un complemento d’arredo che non nasce per durare solo il tempo di un capriccio di stagione? Il nostro sguardo è in grado di riconoscere quanta cura è necessaria per ottenere un certo colore da una pianta tintoria o per intrecciare dei tessuti utilizzando tecniche antiche — patrimonio ormai in disuso — appartenenti alla storia di famiglie e di luoghi?
Il concentrato di queste trame e la scossa terapeutica dei colori di questi filati si dipana anche tra le terre del Mandrolisai, nel centro Sardegna. Non sono zone di passaggio bensì itinerari da segnare e mete da raggiungere per viaggiatori curiosi e appassionati di bellezza.
Incontriamo Mario Garau a casa sua, tra telai semi meccanici orizzontali del secolo scorso, fili e orbace. Il suo laboratorio si trova a Samugheo, paese che, più di altri, in Sardegna continua a conservare una sua fama per la produzione tessile artigianale e di matrice artistica tradizionale.
Mario Garau
«Perché ho iniziato a fare questo lavoro? Sono cresciuto respirando profumo di tessuti. Mio nonno indossava sempre un cappottino in orbace, corto, con un cappuccio piccolino puramente estetico, e lo indossava anche d’estate. Già a dieci anni, quando mia nonna filava, io le facevo le matasse in cambio di poche lire. Non potevo sbagliare! Annodare il filo o accavallarlo mentre utilizzavo il rudimentale arcolaio incrociato avrebbe compromesso la fiducia accordatami dai parenti. Ho appreso così qualche tecnica e poi già da adolescente ho iniziato a fare il tessitore di tappeti presso terzi, pensando che avrei smesso presto … invece mi è piaciuto. Per un periodo feci parte di un gruppo di balli folk e, volendo confezionarmi un costume tradizionale, chiesi a mia madre di poter utilizzare un tessuto in orbace presente in casa, ma lei non me lo concesse in quanto ritenuto troppo prezioso. Decisi così di andare da un pastore a procurarmi la lana e, sulla base di quanto avevo imparato anche guardando mia madre, confezionai da solo il mio costume in orbace. Da quel momento, molti hanno iniziato a chiedermi di riprendere la lavorazione dei manufatti con tecniche e con tessuti tipici, cosa che io prediligo e sostengo da sempre»
Mario Garau
Quando Mario deve usare i filati tinti con colori naturali, percorre pochi chilometri ed arriva ad Atzara, al laboratorio La Robbia. Ci siamo stati anche noi per incontrare Maurizio Savoldo, nato botanico e divenuto, per passione, un sapiente alchimista dei tessuti, capace di creare tinte vibranti grazie al recupero della tradizione storica dell’utilizzo delle piante tintorie per l’abbigliamento e gli oggetti d’arredo.
Maurizio Savoldo
«Ho appreso la tecnica da autodidatta quando durante gli studi universitari ho fatto una tesi sperimentale che prevedeva anche lo studio di alcuni testi sulle piante tintorie: intervistavo gli anziani, andavo in campagna a cercare le piante come la dafne e la robbia, talvolta le raccoglievo e le portavo a casa di mia zia che mi riferiva il nome in sardo; io gli associavo quello scientifico e in italiano, facendo un lavoro di transcodifica che mi ha appassionato. Successivamente ho preso contatto con una associazione di Milano che lavorava nel settore delle tinture naturali e ho così iniziato a maneggiare le piante tintorie esotiche e a rilevare collegamenti tra quanto utilizzato all’estero e quanto presente in Sardegna da tempo incalcolabile. A 26 anni, quando ho aperto il laboratorio in paese gli anziani erano contenti ma mia nonna era preoccupata perché pensava che non sarei riuscito a farne una professione. All’inizio c’è stato entusiasmo ma non nascondo che per i riscontri economici c’è voluto del tempo. Ora posso dedicarmi al laboratorio con calma e passione, approfondendo anche il tema del bio sui reflui di lavorazione e producendo capi di abbigliamento che hanno colori vivi, pulsanti, capaci di dare emozione, che facciamo arrivare anche in altre regioni e all’estero».
Erbe tintorie
Quando Maurizio ha deciso di proporre dei nuovi prodotti per l’arredamento della casa, che unissero le vibrazioni dei suoi colori con la solidità delle antiche trame, ha iniziato ad avvalersi della collaborazione di Mario, dei suoi telai e del suo desiderio di lottare per preservare le tradizioni.
Del resto si parla di presenza di tessitura in Sardegna già da epoca prenuragica. Successivamente, attraversando a grandi falcate epoche diverse, apprendiamo di quanto fosse diffuso che le donne, edotte sull’arte familiare dell’intreccio e della colorazione, fossero in grado di prodursi in autonomia quanto necessario per il proprio corredo di nozze; per poi arrivare al dopoguerra, quando comincia a consolidarsi un mercato tessile sempre più rinomato per la perizia e le capacità artigianali e artistiche presenti nell’isola, in particolare in alcuni paesi, tra cui Samugheo.
Tessuti lavorati da Mario Garau
«Pensare che quando ero piccolo» dice Mario «quasi tutte le famiglie qui possedevano un telaio, potevano procurarsi la lana e il lino. Quest’ultimo ora non si produce quasi più perché non è più remunerativo. Prima lo coltivavano tutti. Ricordo il momento in cui tutto cominciò a sembrare non più utile. Degli ultimi semi di lino conservati a casa per la coltivazione dell’anno successivo mio padre ci disse: dateli ai cardellini! Non parliamo poi dell’orbace, un tempo indispensabile e oggi protagonista dei tipici costumi tradizionali sardi e dei tappeti artistici. Ma io insisto nel tentativo di lavorare solo su ciò che è autentico»
Anche Maurizio insiste per proseguire nella sua strada di confine tra il mondo globale e Atzara, il borgo dove vive e lavora, producendo dei capi che rispettino il ritmo di questi luoghi:
«Anni fa ho lavorato per l’alta moda. Le esigenze delle grandi firme mal si conciliavano con la necessità di produrre in base ai tempi delle piante, alcune delle quali presenti solo in determinati periodi, né con i ritmi di estrazione e pigmentazione. Ad inizio collezione mi chiesero di dimezzare i tempi di produzione. Ho attraversato un periodo in cui il mio lavoro mi pesava, non c’era fantasia, era solo un’attività meccanica. Volevo che il nostro prodotto non fosse destinato solo ad una clientela elitaria ma anche a gente comune che usa abitualmente capi e oggetti, sviluppando una maggiore sensibilità al fatto che quello che indossa non reca danni né a loro né all’ambiente in cui trascorreranno la loro vita. Il consumismo ti porta ad acquistare tanti capi, alimentare discariche di scarti di tessuti e tinte chimiche, anziché investire in qualità e durata. La lana a tinte naturali, se lasciata in campo aperto, durerà circa un anno e degradandosi rilascerà solo proteine».
Magari, ora che sappiamo qualcosa di più di Mario e Maurizio, la percezione che abbiamo della bellezza o il modo con cui guardiamo un oggetto può cambiare. Possiamo soppesare il prezzo che può avere un prodotto che è anche un vettore emozionale perché nasce da un patrimonio storico di conoscenze, prima ancora che da quello economico, sfidando le leggi di un mercato anonimo, lontano, a basso costo e rapido consumo. Magari penseremo che questo valore immateriale, oltre che evidentemente tangibile, merita maggiore tutela, sostegno e visibilità e andremo a cercare questi imprenditori e artigiani che, seppure calati pragmaticamente nella quotidianità locale, sono un veicolo per accendere una diversa consapevolezza, modificare un comportamento nei confronti del mondo e allo stesso tempo rinsaldare una forma di resilienza.