Oscar Daniel Bezerra Schmidt, per tutti semplicemente Oscar, è il miglior realizzatore di sempre nella storia del basket mondiale con 49.737 punti realizzati in partite ufficiali. Non a caso veniva soprannominato “Mano Santa”. Caserta, Pavia, Spagna e Brasile i contesti nei quali ha regalato spettacolo e gioie ai tifosi. Ha giocato a livello professionistico fino ai 45 anni di età, conquistando gli appassionati di basket di tutto il pianeta. Memorabili il suo rifiuto all’NBA e le cinque Olimpiadi con la nazionale brasiliana. Ma Oscar è anche un campione di umanità e di simpatia, che le emozioni forti le ha vissute e donate e che porta Caserta nel cuore.

Ciao Oscar. A parte te, chi dobbiamo ringraziare per il fatto che tu abbia scelto di giocare a basket?

Io credo che sia stato Dio a decidere che io giocassi a basket. E sono molto felice di questa cosa.

Il primo allenatore che ho avuto da ragazzo era giapponese e per allenarmi a tirare mi faceva fare esercizi molto particolari. Io tiravo sempre in modo istintivo e lui lavorava per correggere la posizione delle mie mani; mi diceva di far partire la palla da poco sopra la mia testa in modo che io potessi guardare il canestro; io gli rispondevo che per me quello era un modo innaturale di tirare e che non sarei mai andato a bersaglio. Lui insisteva e mi esortava a continuare a tirare seguendo il suo suggerimento e mi incoraggiava dicendomi che una volta che avrei cominciato a fare canestro non avrei più smesso. Devo ammettere che aveva ragione.
 

Quali erano i sogni dell’Oscar bambino?

Io, come tutti i brasiliani, volevo giocare a calcio. Però Dio mi ha dato in dono l’altezza e ho iniziato a giocare a basket a 13 anni.
 

La tua è stata una carriera pazzesca: ventinove anni di attività, dal 1974 al 2003, e miglior realizzatore di sempre nella storia del basket mondiale con 49.737 punti. Ha inciso di più il talento oppure sono stati più importanti l’impegno, la passione e il sacrificio?

Non credo che il talento esista, penso che si costruisca con il duro lavoro. Io facevo dei turni di tiri pazzeschi: mi allenavo due volte al giorno e dopo gli allenamenti facevo almeno 500 tiri da tre. Quindi, sento di dirti che hanno inciso molto di più l’impegno, la passione e il sacrificio.

Nel 1982 l’approdo a Caserta. Fu Bogdan Tanjevic a chiedere a Giovanni Maggiò di acquisire il tuo cartellino?

Sì, è vero. Tanjevic disse a Maggiò queste parole: «C’è un ragazzo in Brasile che gioca a pallacanestro e che segna e piange. È un camion. Prendiamolo!».
 

Cosa intendeva dire Tanjevic quando diceva che segnavi e piangevi?

Tanjevic mi aveva visto giocare per la prima volta nel 1979 a San Paolo in occasione della finale di Coppa Intercontinentale tra Sirio e Bosna Sarajevo. In questa finale io feci quarantadue punti; un punteggio pazzesco per quei tempi, perché non esisteva ancora il tiro da tre! E ricordo che segnai i due tiri liberi che ci portarono ai supplementari. Poi, vincemmo noi.

Bogdan rimase molto colpito dalla mia prolificità nell’andare a canestro. E gli rimase impresso che quando segnavo mi venivano gli occhi lucidi, tanta era l’emozione che provavo.
 

Sia Boscia che Maggiò sono state persone molto importanti per te, vero?!

Sì, è vero. Sono stati tutti e due molto importanti per me, sia dal punto di vista umano che professionale.

Di Maggiò porto dentro di me un momento in particolare. Io ebbi una proposta contrattuale dal Real Madrid e, non so come, venne a sapere la cosa. Lui mi convocò nel suo ufficio; ricordo che mi fece aspettare quaranta minuti. Quando entrò mi disse: «Cos’è questa storia del Real Madrid? Quanti anni di contratto ti propongono?». Io gli risposi: «Tre anni». E lui: «Allora io te ne offro quattro. Va bene così?». Io accettai di rimanere a Caserta con molta gioia, anche se con quella scelta avevo rinunciato alla possibilità di giocare a Madrid con Petrovic.

Quando Maggiò è morto, per me è stato come perdere un padre.

Di Boscia ricordo con molta gratitudine il fatto che lui mi abbia protetto, perché nei miei primi anni in Italia io potevo correre il rischio di essere “tagliato”. Lui mi faceva da scudo dicendo che l’aver scelto di portarmi a Caserta era una sua responsabilità.

(Oscar e Bogdan Tanjevic)

Con Caserta hai vinto una Coppa Italia, hai raggiunto due finali Play Off e una finale europea di Coppa delle Coppe. Inoltre, sei stato per quattro volte il miglior realizzatore del massimo campionato italiano.

Della tua esperienza casertana, quali sono i ricordi che più ti sono rimasti dentro?

I ricordi più belli che ho sono legati ai tifosi.

Maggiò costruì il palazzetto in cento giorni. Da quel momento al PalaMaggiò alle partite c’erano quasi sempre novemila persone.

Adoravo i momenti nei quali i tifosi cantavano ‘O surdato ‘nnammurato: era la mia canzone.

Il ricordo agonistico che più porto dentro di me è legato alla finale di Coppa delle Coppe del 1989 contro il Real Madrid di Drazen Petrovic. Io, a quei livelli, non avevo mai visto qualcuno fare più di quaranta punti in una partita; Petrovic in quella finale ne fece sessantadue. Io ne feci “appena” quarantaquattro di punti.
 

Con la differenza che Petrovic giocava in una corazzata…

Sì, anche questo è vero.
 

Anche a Caserta conservasti la caratteristica che aveva notato Tanjevic a San Paolo nel 1979. Mi riferisco al fatto che i tuoi occhi diventavano lucidi quando realizzavi canestri importanti. Confermi?

Sì, è vero. Il mio sogno era quello di giocare in Italia ed essere riuscito a realizzarlo rappresentava per me una vera gioia. In campo volevo dare alla squadra tutto quello che sapevo fare e tutto quello che sapevo fare era fare canestro. Quando facevo canestro provavo un’emozione incontenibile e subito pensavo già a fare il canestro successivo.
 

Nel 2016 sei diventato cittadino onorario di Caserta. Cosa ha significato per te giocare in questa città, anche alla luce del fatto che sei diventato uno dei suoi simboli più importanti?

L’amministrazione comunale di allora mi conferì la cittadinanza onoraria di Caserta grazie all’immenso affetto dei tifosi nei miei confronti. Sono molto orgoglioso di questo riconoscimento.
 

Delle bellezze e delle perle enogastronomiche del territorio casertano, quali ti sono rimaste più impresse nella memoria?

Mi piacevano molto la Reggia di Caserta e il borgo di San Leucio. Ma ciò che mi aveva fatto innamorare era la mozzarella di bufala. La mangiavo spessissimo, accompagnata con i pomodori. Apprezzavo tantissimo anche la pizza che si faceva a Caserta e in provincia.
 

Il Napoli Calcio ha ritirato la maglia numero 10, la Juvecaserta la numero 18: un gesto riservato solo ai grandi campioni, ai fuoriclasse. A tal proposito, ricordo che Maradona veniva a vederti giocare al palazzetto di Caserta: era un tuo appassionato tifoso e ti stimava molto, come uomo e come professionista. Che ricordi hai di Diego?

L’idea che Maradona venisse al PalaMaggiò per vedermi giocare mi procurava un’emozione fortissima. Gli volevo molto bene. Dopo la partita andavamo a mangiare al ristorante e trascorrevamo un po’ di tempo assieme.

Diego in campo poteva decidere la partita in ogni momento con la sua classe e la sua imprevedibilità. Fuori dal campo era una persona incredibilmente generosa.
 

Nel 2013 sei stato ammesso nella Hall of Fame, massimo riconoscimento per un cestista. Che sensazioni hai provato nel ricevere questa onorificenza, avendo al tuo fianco il mitico Larry Bird?

Ricordo che ero alla guida della mia auto. Squilla il mio telefono, vedo che si tratta di una chiamata dagli Stati Uniti, e rispondo in vivavoce. Mi dicono che sono stato ammesso nella Hall of Fame. Al che io faccio presente che facevo parte della Hall of Fame già dal 2010. Il mio interlocutore mi dice, però, che mi chiamava non dalla FIBA ma dal Naismith Memorial Basketball Hall of Fame di Springfield e che volevano conferirmi il massimo riconoscimento mondiale per un cestista. E pensare che non avevo neanche mai giocato in NBA!

Ero felicissimo. Ho provato un’emozione fortissima. Era un premio che avevo sognato molto. E poi, dopo dieci anni che avevo smesso di giocare, arriva questa splendida notizia.

Durante la premiazione è stato bello avere al mio fianco il mitico Larry Bird.
 

Sempre nel 2013, per te un anno denso di accadimenti, hai avuto modo di incontrare Papa Francesco durante la sua visita in Brasile. Che emozioni hai provato?

Per me, che sono cattolico, il Papa è la massima autorità del pianeta. Ammiro molto Papa Francesco. Poter parlare con lui è stato un dono incredibile per me. Dal momento in cui il Papa ha messo la mano sulla mia testa ho smesso di essere emozionato tre giorni dopo. Giusto per darti l’idea dell’intensità della mia emozione.
 

Posso chiederti un ricordo legato a Kobe Bryant?

Certo, con molto piacere.

Per me Kobe Bryant è stato il miglior giocatore della storia della pallacanestro.

Ricordo quando, assieme a Joe Bryant, giocavamo l’All-Star Game. Kobe era piccolino e veniva lì con suo padre; durante l’intervallo della partita si divertiva a fare un po’ di tiri: aveva solo sei o sette anni e lo vedevo fare canestro dalle posizioni e dalle distanze più diverse. Chiesi chi fosse quel bambino e mi risposero che era il figlio di Joe Bryant.

Diversi anni dopo, quando facevo il commentatore per l’emittente brasiliana Globo, ho avuto modo di conoscerlo; era ormai già un fenomeno. In quella occasione mi ha raccontato che quando lui era piccolo suo padre Joe lo esortava a tifare per Michael Jordan o per Magic Johnson. E lui, niente, come idolo aveva Oscar Schmidt. Sapere questa cosa mi ha fatto molto piacere.

(Oscar e Kobe Bryant)

Per tutti eri la “Mano Santa”. Eri soprannominato, però, anche “O Rey do Triple”. Il tiro da tre è, per certi versi, una metafora della vita: nel tiro dalla distanza così come nelle scelte che facciamo nella nostra esistenza, quanto contano il coraggio, la fiducia nei propri mezzi e il concedersi la possibilità di poter sbagliare?

Tutto quello che hai detto è vero. Contano molto il coraggio, la fiducia e accettare di poter sbagliare. Secondo me, poi, è ancor più importante l’impegno, che nel caso del basket e del tiro da tre si traduce nell’allenamento.
 

Quanto è stato importante il supporto di tua moglie Cristina nel corso della tua carriera e dopo che hai smesso di giocare a basket?

È stato fondamentale.

Mia moglie Cristina è sempre stata al mio fianco, da quando veniva agli allenamenti all’inizio della mia carriera fino a quando mi ha seguito in Italia. E ancora oggi è decisivo il suo supporto. È una persona eccezionale.

Molto importanti per me sono anche i miei figli Felipe e Stephanie.
 

Com’è stato giocare a basket assieme a tuo figlio Felipe?

È stata una grande soddisfazione per me giocare nella stessa squadra con lui gli ultimi quattro anni della mia carriera. Poi, lui è andato a giocare negli Stati Uniti e ha vinto il campionato della Florida ed è stato il miglior giocatore delle finali.

Quanto ti mancava il Brasile quando giocavi a Caserta e quanto ti manca Caserta ora che vivi in Brasile?

Questa è una domanda importante, non pensavo che me l’avresti fatta. Rispondo con piacere.

Quando ero a Caserta il Brasile mi mancava molto: ci tornavo solo quando dovevo giocare con la nazionale. Tenevo molto alla Selecao; pensa che per continuare a giocarci ho rifiutato la NBA. All’epoca se giocavi nel massimo campionato americano non potevi giocare anche nella selezione nazionale del tuo Paese. Però, Caserta mi mancava molto. È quando sei lontano che capisci quanto ti mancano un luogo e gli amici. Non vedevo l’ora di tornare a Caserta, era sempre così. Per otto anni ho fatto la spola tra Brasile e Caserta.

E Caserta mi manca anche oggi. Per me giocare in questa città è stato il massimo. Mi sarebbe piaciuto vincere anche lo scudetto con Caserta. Purtroppo, però, questo non è successo. Però, quando i miei compagni hanno vinto lo scudetto ero con loro, con la testa e con il cuore.
 

Penso che lo scudetto che poi Caserta ha vinto sia stato anche un po’ tuo. Ritengo sia stato decisivo il contributo che hai dato per far crescere progressivamente la mentalità e la consapevolezza della squadra e dell’ambiente. Sei d’accordo?

Credo che sia così. Ricordo che quando sono arrivato Gentile ed Esposito erano giovanissimi. Loro sono cresciuti assieme a me e a Tanjevic. Poi, è indubbio che fossero dei fenomeni della pallacanestro, dei predestinati.

Però, penso che se nell’ultimo anno con Tanjevic non avessimo perso Delibasic, a causa di un grave problema di salute che lo costrinse ad abbandonare il basket, avremmo potuto portare lo scudetto a Caserta anche durante la mia permanenza.
 

Oggi svolgi l’attività di motivatore: quali sono i valori e i concetti che cerchi di promuovere negli incontri con i dipendenti delle aziende che si rivolgono a te?

Ostinazione, autostima, sogni, passione e lavoro di squadra. Con questi elementi si può arrivare dove si vuole. Nel mio vocabolario non esiste più la parola “impossibile”. Basti pensare che nel 1987 a Indianapolis con il Brasile abbiamo vinto i giochi panamericani battendo in finale gli Stati Uniti, uno squadrone; nessuno poteva prevedere un esito del genere.
 

Nella nostra conversazione hai fatto spesso riferimento alle emozioni. Dai la sensazione di essere una persona molto portata a vivere le emozioni. È così?

È così. Sono una persona predisposta ad emozionarsi. Ho pianto in molte partite importanti della nazionale brasiliana, ho pianto con le vittorie di Caserta. La mia energia derivava dalle emozioni e sentivo il bisogno di tirarle fuori. Ho avuto la fortuna di giocare sempre in buone squadre e di provare emozioni forti in tutte le squadre in cui ho giocato. Credo che siano state proprio queste emozioni a portarmi alle vittorie.
 

Hai vissuto in diversi posti: Brasile, Italia, Spagna e USA. Quali sono i tuoi luoghi del cuore?

Caserta prima di tutto. Ma anche Pavia. E poi San Paolo, in Brasile.

Ma Caserta ha un posto speciale nel mio cuore: è molto probabile che se non mi avessero mandato via dalla Juvecaserta sarei rimasto a vivere lì.
 

E quelli dell’anima?

Sicuramente la piazza di San Paolo dove ho conosciuto mia moglie Cristina. E poi il PalaMaggiò: lì sentivo di essere a casa mia.

Grazie Oscar. Un abbraccio forte.