Siamo a Finale Emilia, il comune più ad oriente della provincia di Modena, nella sua porzione che si insinua nella provincia di Ferrara. La località si chiama Entrà, come la trattoria. L’oste è Antonio Previdi: garbo, passione e competenza.
 
 

Ciao Antonio. Iniziamo col chiederti di raccontarci del tuo territorio: di Finale Emilia e di Entrà.

Finale Emilia è una cittadina che ha una lunga storia, in quanto era un casello importante del fiume Panaro, all’epoca in cui era navigabile: quando gli Estensi navigavano il Panaro per raggiungere il Po passavano anche per Finale Emilia.

È il nostro comune di residenza. Siamo molto legati a Finale Emilia ma le abitudini più radicate di casa mia sono maggiormente riconducibili a quelle di San Felice sul Panaro; il nostro dialetto è più simile al sanfeliciano che al finalese. Mia madre era sanfeliciana, motivo per il quale le ricette della sua cucina erano quelle di San Felice sul Panaro.

La località in cui ci troviamo si chiama Entrà, che in dialetto si dice “Intrà” e vuol dire “interrato”. In passato questa era una zona paludosa che poi è stata bonificata – interrata, appunto – e, quindi, sopraelevata.

 

Siamo in una terra ricca di perle enogastronomiche: Lambrusco, Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP, sfoglia tirata al mattarello, Parmigiano Reggiano e salumi pregiati. Però, dicci qualcosa sul Salame di San Felice e della Pellegrina.

Questa trattoria è figlia di un salumificio; a fine ‘800, in fondo alla via Entrà, in direzione di Massa Finalese, c’era il famoso salumificio Bellentani: aveva iniziato la propria attività con una dimensione artigianale, per poi diventare un grande stabilimento per la produzione di salumi dopo la metà del ‘900. In ogni famiglia vi era almeno un componente che lavorava in questo opificio. Molti lavoratori impararono molto bene a fare i salami e negli anni quest’arte è stata poi trasmessa alle generazioni successive. Io stesso, con l’indispensabile aiuto di un esperto Masalàri della classe ’41, porto avanti questa preziosa tradizione e ho tanti ricordi a riguardo: uno in particolare riporta la mia memoria a quando ero bambino e, in particolare, alla cena che chiudeva la giornata di macellazione del maiale. Erano presenti tante persone: dal veterinario al farmacista, dal medico del paese alla parrucchiera di mia madre, per finire poi con gli amici più cari della mia famiglia; era una festa bellissima.

Qui ci si è specializzati sui salami perché non c’erano le condizioni climatiche per stagionare spalle o prosciutti. Di conseguenza, i tagli buoni della carne venivano utilizzati per il salame. Proprio per questo la qualità dei salami prodotti in queste zone è sempre stata elevata.

Il fatto che il salame di San Felice abbia un disciplinare di produzione depositato alla camera di commercio non è stato sufficiente a consolidare un distretto produttivo; diciamo che la realizzazione dei salami avviene prevalentemente su scala familiare e che, quindi, la ricetta attinge indubbiamente dalla tradizione ma si apre anche a diversificazioni personalizzate.

La Pellegrina (in dialetto Palgrina), invece, era un vitigno a bacca bianca che, anni fa, veniva coltivato da queste parti. Questa varietà in fermentazione sviluppava pochissimo grado alcolico, ma era ricca di sapidità e sali minerali, tanto che il vino che ne derivava, tagliato a volte con l’acqua, aveva la funzione di dissetare piuttosto che di stupire per particolari qualità organolettiche. Purtroppo, però, non possiamo sapere che profilo qualitativo potrebbe avere il vino se la Pellegrina venisse coltivata e vinificata con i criteri e gli approcci tecnici di quest’epoca, in quanto, da ciò che mi risulta, pare che siano rimaste qua e là solo poche piante non reinnestate.

 

La presenza del fiume Panaro, storicamente, ha avuto influenze nella tradizione culinaria di questi luoghi?

La tradizione che si mangia adesso al ristorante quaranta anni fa era impensabile. Perché i piatti della tradizione – penso alle tagliatelle o alla faraona arrosto – venivano preparati e mangiati in casa e non si andava al ristorante per gustarli.

Questa attività, quando fu prelevata dalla mia famiglia, ma ancora prima dal dopoguerra in avanti, aveva una proposta esotica: anguille alla brace, pesce gatto in umido e rane fritte. Il Panaro e tutta la rete dei canali di irrigazione hanno permesso di avere a disposizione queste risorse.

(Una delle sale della trattoria Entrà)

Passiamo alla trattoria: qual è la sua storia e chi sono le persone che ti hanno preceduto in questa attività?

Io sono cresciuto nell’edificio nel quale oggi c’è la trattoria.

La mia famiglia ha acquistato l’attività nel 1969. La cuoca era mia madre Agnese. La trattoria aveva solo cinque tavoli e i piatti che si mangiavano erano gli stessi che mia mamma quel giorno avrebbe preparato per noi di casa. In realtà, però, il core business era costituito dal bar: gli avventori venivano a giocare a carte e a consumare il classico bicchiere di Vermouth. Dopo aver bevuto qualche bicchiere era probabile che la fame facesse capolino. A quel punto entrava in gioco l’offerta ristorativa.

Mio padre, invece, faceva il commerciante di foraggi. E questo gli consentiva di intercettare tante materie prime: formaggi, animali degli allevatori dei comuni che visitava per lavoro. Ci pensava poi mia madre a trasformarli in piatti saporitissimi.

La cultura della qualità c’è sempre stata nella mia famiglia: abbiamo sempre mangiato bene e consumato cibi genuini. Nell’attività ristorativa non abbiamo fatto altro che portare avanti questa nostra consuetudine.

Un’abitudine molto sentita in casa nostra è stata quella di evitare nella maniera più assoluta gli sprechi: continuiamo a praticarla.

 (Granitiera)

All’interno delle sale ci sono diversi oggetti e fotografie molto particolari. Descrivicene alcuni.

Uno degli oggetti presenti in trattoria che più racconta la storia di questo luogo è un’antica granitiera che risale agli anni ‘40. Nel secondo dopoguerra, infatti, nel locale in cui oggi c’è la trattoria, c’era una balera, la Taverna Verde: c’erano figure come il grammofonista e il granitiere; passava un signore che vendeva le stecche di ghiaccio, che venivano frammentate con uno scalpello e i pezzi derivanti venivano macinati con la granitiera.

Poi c’è una foto che è densa di storia: ritrae un nostro parente, nonché compaesano e vicino di casa, Renato Govoni. Emigrò in Svizzera ed ebbe il privilegio di fare l’autista e il factotum di Charlie Chaplin. Ogni tanto tornava a casa e veniva a mangiare qui in trattoria. Quando andò in pensione, nei primi anni ’90, venne a cena qui da noi con uno dei figli di Charlie Chaplin, il quale gli aveva portato una serie di documenti da firmare, atti relativi al trattamento di fine rapporto di Renato Govoni stesso.

La foto ritrae proprio il nostro Renato e questo figlio di Charlie Chaplin con la sua famiglia.

 

Che tipo di cucina propone Entrà?

Una cucina della tradizione, non rivisitata. Poi, inevitabilmente, nel menù possono essere presenti anche piatti che non sono riconducibili alla nostra tradizione, ma lo spirito col quale sono prodotti è lo stesso.

(Tagliatelle al ragù)

Descrivici tre vostri piatti che ritieni siano espressione del territorio.

Il salame, la tagliatella al ragù e la faraona arrosto. Poi, non so quanto la faraona sia un’esclusiva di questo territorio; noi, comunque, la facciamo da 53 anni.

(Prosciutto crudo e salame artigianali)

E i piatti che per te sono più evocativi?

Probabilmente l’anguilla alla brace. Mi ricorda la mia infanzia. Mio padre, prima di lasciarci, mi ha insegnato a farla. A volte la cucino per i miei amici. È un piatto straordinario: mi piacerebbe, un giorno, rimetterlo nel menù.

Poi, tra i piatti che proponiamo, sicuramente la faraona arrosto: mi ricorda mia madre.

(Faraona arrosto)

Hai creato una carta dei vini estremamente ricca ed articolata: copre gran parte del territorio italiano, con un’attenzione particolare ad importanti distretti francesi. Il protagonista assoluto è, però, il Lambrusco. Parlaci della sua rinascita.

Il Lambrusco oggi è svincolato da un forte radicamento col passato; ciò anche grazie al contributo delle nuove generazioni e alla grande cultura del vino che è cresciuta ovunque, anche nelle terre del Lambrusco.

Oggi si punta sulla qualità, a cominciare dalla vigna, con basse rese per ettaro (un discorso a parte merita il Sorbara) agendo su potatura e diradamento dei grappoli; per poi passare alla fase della vendemmia, con una selezione più rigida, e terminare con il lavoro in cantina modulando le pressature e approcciando alla fattura del vino con tecniche molto accurate.

 

Cosa significa per te essere l’Oste di Entrà?

Sono 33 anni che faccio questo lavoro.

Gli insegnamenti migliori sono arrivati dai colleghi: girare per i ristoranti per me è stata una grande scuola. Poi è essenziale saper interpretare gli importanti “suggerimenti”, a volte diretti e altre volte indiretti, provenienti dai clienti.

Oggi il ruolo dell’oste è molto importante: si ha il privilegio e il dovere di raccontare il territorio, di comunicare affinché si accrescano l’educazione alimentare e la consapevolezza delle filiere.

Questo è un mestiere di grandi sacrifici: dai sedici ai trent’anni ho dovuto rinunciare ai divertimenti tipici di quell’età. Poi, negli anni, il mestiere mi ha restituito quello che mi ha tolto in gioventù: soprattutto grazie alle relazioni umane che il lavoro mi ha consentito di instaurare. Oggi, non a caso, molti dei miei migliori amici sono clienti o proprio quei produttori di vino che ho selezionato per la carta dei vini di Entrà.

 

Quando si è lontani dai grandi agglomerati – come nel vostro caso – per fare una ristorazione che sia attrattiva bisogna puntare ancora di più sulla qualità e sul legame con il territorio?

Bisogna puntare, a prescindere, sulla qualità e sul legame con il territorio. Bisogna presentare piatti che siano leggibili e che restino impressi chiaramente nella memoria dei nostri clienti. È molto importante offrire un’accoglienza calorosa e franca, proporre una cucina che si basi su alimenti che siano anche giusti.

È indubbio che questa cifra consente di essere attrattivi anche per clienti che siano fisicamente lontani da questo posto.

 

Quali sono i tuoi luoghi del cuore e quelli dell’anima?

Sicuramente il cortile della trattoria è il mio luogo del cuore per eccellenza: ci sono cresciuto, ci ho fatto tante corse, risate, bevute. Ho chiaro nella mia mente un ricordo, quasi una fotografia: la panchina sotto il salice in questo cortile; mi capita ancora oggi di vederci seduto l’Antonio bambino.

I miei luoghi dell’anima sono due.

Uno è la cantina: mi piace trascorrere del tempo assieme ai vini che scelgo.

L’altro è la piatta campagna della “Bassa”, dopo la mietitura del grano, con le balle di paglia gialle.