Centopassi. E subito il ricordo va al film di Marco Tullio Giordana con il quale il regista nel 2000, grazie anche all’indimenticabile interpretazione di un giovane Luigi Lo Cascio, ha raccontato la storia di Peppino Impastato, giornalista e attivista antimafia siciliano.

Centopassi, oggi, e soprattutto per gli appassionati di vino, fa pensare istantaneamente anche ad una delle aziende vitivinicole più interessanti del panorama siciliano. Centopassi è anche, metaforicamente e non solo, la misura del percorso di riutilizzo dei beni confiscati alla mafia avviato nel 2008 dalle cooperative di Libera Terra e ormai consolidatosi su standard produttivi di altissima qualità. Un cammino tutt’altro che agevole, e per questo ancor più lodevole. È la testimonianza che le battaglie ideali hanno trovato continuità nella creazione di tragitti e nella costruzione di realtà che dimostrano che è possibile realizzare modelli di sviluppo che siano imperniati sulla legalità e sul mercato, modelli che hanno importanti e positive ricadute sul territorio: creano opportunità di lavoro, nuovo fermento economico e una brezza culturale che spazza via riferimenti arcaici e deteriori.

Il teatro è l’Alto Belice Corleonese, altopiano situato a circa quaranta chilometri a sud di Palermo, caratterizzato da paesaggi di rara bellezza e particolarmente vocato per le produzioni enologiche. Siamo di fronte a scenari incontaminati e suggestivi, come il Bosco della Ficuzza, Portella della Ginestra e parte della valle dello Jato. Le due ali del fiume Belice creano le tracce del perimetro del palcoscenico: le vigne sono comprese tra il Belice destro, che nasce dalla diga di Piana degli Albanesi, e il Belice sinistro, che viene alla luce dalla Rocca Busambra. I due rami si uniscono più a sud nel territorio di Poggioreale – sempre in terre di vino, nella zona di Salaparuta – per poi incontrare il mare nei pressi di Selinunte, un’area densa di storia nel comune di Castelvetrano.

Vigneto di PORTELLA DELLA GINESTRA (Immagine di Giorgio Salvatori)

La superficie vitata è di circa 75 ettari. I vigneti lavorati sono dodici, collocati tra i 350 e i 950 metri di quota. Quello che si trova alla maggiore altitudine e che ha il più rilevante valore simbolico è il vigneto di Portella della Ginestra, nel comune di Monreale, impiantato in una pietraia da cui è possibile vedere il mare. Il sistema di allevamento delle viti è quello ad alberello e le varietà presenti sono il Nerello Mascalese e il Nocera. Quello più vecchio si trova, invece, a San Giuseppe Jato ed è quello di Giabbascio, dove le viti di Catarratto insistono su due ettari di terreno di argilla rossa.

I vitigni a bacca bianca coltivati sono Grillo, Catarratto, Carricante e Trebbiano. Tra quelli a bacca scura sono presenti Nero d’Avola, Nerello Mascalese, Nocera, Perricone e Merlot.

Le vendemmie, soprattutto per l’ampio arco di varietà di uve lavorate e per le differenti condizioni pedo-climatiche caratterizzanti i diversi vigneti, hanno inizio ai primi di agosto e vanno avanti fino alla metà di ottobre.

L’intera produzione viene realizzata in regime biologico.

I suoli si sono evoluti a partire da una depressione silico-carbonatica dalla quale, in seguito a processi millenari di trasformazione e di erosione, si è arrivati alla formazione di composizioni leggermente diverse tra loro. La matrice rimane, però, quella argillosa calcarea; poi, in alcune zone si aggiunge un’importante quota di arenaria, come accade per il vigneto di Giabbascio.

Nel corso degli anni la gamma dei cru si è estesa fino alle attuali sette etichette. La cifra stilistica dei vini è molto distante dagli stereotipi delle produzioni siciliane: i vini spaziano tra personalità ed eleganza, e puntano su un’agile beva, portando in dote freschezza, sapidità e mineralità.

Vigneto di GIABBASCIO (Immagine di Giorgio Salvatori)

Dei sette vini cru prodotti, ben cinque provengono da vigneti distribuiti sul territorio di Monreale: il Rocce di Pietra Longa, che ha per protagoniste le uve di Grillo; il Tendoni di Trebbiano, prodotto a partire dall’omonimo vitigno; il Nero d’Avola, Argille di Tagghia Via; il Pietre a Purtedda da Ginestra, a base di Nerello Mascalese e Nocera; e Sulla Via Francigena, Merlot in purezza.

A San Giuseppe Jato nascono le uve di Catarratto da cui prende vita Il Terre Rosse di Giabbascio, mentre a San Cipirello si coltivano le uve di Perricone da cui deriva il Cimento di Perricone.

Il lavoro è in continua evoluzione e presto arriveranno sul mercato nuovi vini cru.

Vigneto DON TOMMASO (Immagine di Giorgio Salvatori)

In cantina si cerca di ridurre al minimo l’interventismo. I bianchi fanno almeno sei mesi di affinamento sui propri lieviti. Per i rossi si tende a privilegiare macerazioni più delicate e lunghe.

Le etichette sono davvero belle e trasmettono un senso di pace e di armonia.

La produzione annua si attesta sul mezzo milione di bottiglie. Le esportazioni avvengono verso sedici nazioni. Ciò conferma che, oltre a promuovere i valori etico-sociali che sottendono il progetto, Centopassi produce vini di altissima qualità, apprezzati anche da mercati esteri che hanno sensibilità diverse rispetto a quello italiano riguardo alla genesi di questa realtà. Quindi, ribaltando quanto accaduto nei primi anni di attività, oggi è la qualità dei vini che trascina e sostiene i valori fondanti di Centopassi.

Ho scelto di degustare il Cimento di Perricone 2019 – Terre Siciliane IGT, che ha per protagonista l’omonimo vitigno autoctono e identitario della Sicilia occidentale. Una varietà difficoltosa da gestire, sia in vigna che in cantina. Col passare degli anni, grazie ai progressi delle tecniche agronomiche e di quelle di vinificazione, si sta riuscendo a trovare la giusta chiave di lettura della varietà e una più efficace gestione delle sue criticità.

Il nome “Cimento di Perricone” condensa proprio il significato del cimentarsi, del dare prova di abilità nel vinificare questo vitigno scalpitante.

Le uve provengono dal vigneto Don Tommaso, situato a circa 400 metri di altitudine nel comune di San Cipirello. Le rese oscillano tra i 70 e gli 80 quintali per ettaro.

Nel calice il tessuto è di color rosso rubino, con ombreggiature violacee.

Appaga l’olfatto con lunghezza e intensità. L’incipit è tutto delle note fruttate: di prugne e poi di ciliegie sotto spirito. A seguire, entrano in scena anche sentori di carruba, caffè, tabacco, chiodi di garofano e macchia mediterranea.

Al palato, il tannino brioso e l’incessante freschezza sono la trama e l’ordito di questo vino. Le papille gustative prendono il testimone dalle sensazioni odorose con l’aggiunta di rimandi a frutti neri macerati e grafite.

È un vino realizzato non per compiacere ma che conquista proprio per il carattere e per le peculiarità che lo rappresentano con coerenza rispetto ai tratti distintivi del vitigno.

E siccome il vino è spesso occasione di suggestione per la memoria, il Cimento di Perricone 2019, ancora una volta, crea dentro di me agganci e aderenze con ricordi cinematografici. La sua foggia mi fa pensare a Gennarino Carunchio, marinaio interpretato da Giancarlo Giannini nell’indimenticabile film “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”, successo di Lina Wertmüller del 1974; l’associazione tra vino e personaggio scaturisce dalle loro convergenze di temperamento: entrambi siciliani, autentici e risoluti, con accenni ruvidi ma inclini allo slancio, alla passione e all’incanto.

A suggellare questo collegamento contribuiscono anche le note di macchia mediterranea che si sprigionano dal calice, le quali mi proiettano all’ombra resinosa dei ginepri delle dune di Capo Comino, uno degli scenari paradisiaci nei quali sono state girate alcune scene di questo capolavoro.